DIALOGO E RESPONSABILITA’ PER VIVERE LA BELLEZZA DELLA VITA “SENZA FIATO”

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LA RECENSIONE DEL FILM AMBIENTATO A CASERTA CON FRANCESCA NERI E FORTUNATO CERLINO

di Francesco Capo

La macchina da presa indugia su particolari e dettagli, i volti dei protagonisti sono ripresi a metà in primissimo piano a simboleggiare un senso di soffocamento e di incompiutezza per la difficoltà ad accedere ad un’altra parte di sé. I campi lunghi e lunghissimi ritornano quando Matteo, un matematico quarantenne che non trova un motivo per vivere, va a correre, solitario, su enormi distese naturali per dare sfogo alla sua frustrazione, rimanendo senza fiato.

É lui il personaggio con funzione di mcguffin (come Hitchcock definiva l’espediente cinematografico per dare dinamicità alla trama) e di collante tra le diverse storie ambientate e interamente girate tra Caserta, Santa Maria Capua Vetere e Capua, quest’ultima di straordinaria bellezza cinematografica.

“Senza fiato”, diretto da Raffaele Verzillo e scritto da Pier Francesco Corona, è un film corale, che racconta, in un bianco e nero alla “Nebraska” (il film di Alexander Payne ndr), con la poetica fotografia di Rocco Marra, la crisi della classe media.

Michele, in apparenza sicuro di sé, è in realtà un uomo fragile che vive sotto la minaccia del licenziamento proprio mentre la moglie è incinta del primo figlio. Alessandro ha fatto un master in economia e tanti stage ma non riesce a trovare lavoro e sta pensando di trasferirsi a Londra. Anche Livia, la sua compagna, non ha lavoro e deve accudire la madre Luciana, che si è rifugiata nell’alcol dopo l’abbandono del marito Enrico. Quest’ultimo, a seguito di un tragico evento del passato, ha scelto di fuggire dalle responsabilità.

Carla vive una relazione segreta con un uomo sposato e ha il papà ricoverato in ospedale per un problema cardiaco, lasciato in un angolo in attesa che si liberi un posto migliore e che qualcuno capisca come curarlo.

Rappresentano la generazione che i più anziani definiscono fortunata perché non ha vissuto la guerra, ma, come dice una battuta del film, questi anni, con la crisi, l’abbrutimento culturale e sociale sono stati in realtà una guerra.

Il film doveva chiamarsi “il vuoto”, come il vuoto culturale di quest’anni, come il vuoto lasciato dalla classe politica che ha governato il Paese negli ultimi trent’anni,  come quello generato dalla nostra incapacità di guardarci negli occhi, parlarci e reagire. In alcune scene la macchina di presa traballa leggermente, come i personaggi di fronte ai problemi che sono costretti a subire. E la sensazione di un vuoto che ti schiaccia la avverti in un contre plongé che preannuncia una brutta notizia per uno dei personaggi.

Il regista e la montatrice Maria Iovine giocano spesso con le sfocature come se volessero spingere lo spettatore a mettere a fuoco e a trovare una soluzione. Sono forse i personaggi di Matteo ed Enrico a suggerirla. Matteo, come un mendicante, incontra gli amici cercando il perché della sua esistenza, ma forse più semplicemente vuole ripristinare un contatto umano sincero ed è l’unico che nell’abisso del vuoto riesce a vedere sé più bello e felice. Enrico decide di porre fine al suo eremitaggio e aggiustare il passato divenendo responsabile.

Il film si chiude con una scena carica di speranza, che gli autori sembrano riporre nella necessità delle persone di tornare a parlarsi con sincerità e di rimboccarsi le maniche per cambiare lo stato delle cose.

LA CONFERENZA STAMPA A CURA DI FRANCESCO CAPO.  VIDEO DI GIANFRANCO CAROZZA