A PROPOSITO DI RI-ABILITAZIONI…

0

  di Alfredo Grado*      

            Con la ri-abilitazione concessa dal Tribunale di Sorveglianza di Milano a Silvio Berlusconi, cancellando di fatto tutti gli effetti della condanna subita nell’agosto del 2013 per frode fiscale Mediaset e, conseguentemente, facendo decadere anche gli effetti della legge Severino che prevedevano l’esclusione dalla vita pubblica di Berlusconi per sei anni,  si può pensare che certe  sentenze abbiano un ruolo considerevole nello svolgimento della democrazia del Paese Italia. Tuttavia, il problema è molto più complesso o, per meglio dire, di natura diversa da quello suggestivo ed inizialmente pensato, ma che ad ogni modo ci offre lo spunto per qualche riflessione che ben si sposa con il momento che stiamo attraversando e con quello che con molte probabilità ci aspetta.

            A tale proposito va detto che la magistratura ha acquisito, negli ultimi decenni, una legittimazione “sociale”, che si sovrappone a quella “formale”. Ha acquisito, in parole povere, una legittimazione “democratica”, benché non sia un’istituzione elettiva. Anzi, in qualche modo, proprio la sua indipendenza dal circuito della rappresentanza è sembrata immunizzarla dalla crisi della rappresentanza medesima e consentirle di acquisire una peculiare “rappresentatività”. Pertanto, il problema non è attinente al ruolo giuridico, ma allo svuotamento della politica, da cui deriva certamente la tentazione di una sua compensazione di tipo giudiziaria contravvenendo, tra l’altro, a quelle norme scritte da Piero Calamandrei: “La giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti solo alla legge” (art. 101); “La Magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” (art. 104); “I magistrati sono inamovibili [e] si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”.

            Tutto ciò ha senz’altro una origine, ed è riconducibile a quando la magistratura si è trovata a dover rispondere ai bisogni di riconoscimento delle soggettività incarnate, del loro “diritto” a essere se stesse, emerse nelle società contemporanee da circa un ventennio a questa parte. Questo riconoscimento si è radicato in quella promessa originaria della modernità di essere “autori”, o perlomeno partecipi, dell’ordinamento. Tali bisogni di riconoscimento soggettivi hanno minato (non da soli) i vincoli solidaristici che sorreggevano il legame sociale, nella misura in cui hanno prodotto individualizzazione e pluralismo estremi. In tal senso, il “diritto dell’individualità”, uno dei fattori propulsivi dei processi di democratizzazione, ha messo in discussione il quadro democratico, che a questo punto ha iniziato a necessitare di un collante collettivo. Ma non è finita qui. In tali frangenti, la magistratura si è trovata a subire la pressione di quanti rivendicavano i propri diritti e quella di un ordinamento che richiedeva sicurezza sociale. Si tratta di istanze la cui gestione doveva ricadere sulla classe politica la quale, a sua volta, avrebbe dovuto ricostruire le culture e le identità politiche autonome rispetto ai poteri economici e radicati nella società, senza coltivare l’alibi autoassolutorio che continua a produrre la ricerca di scorciatoie nefaste, all’insegna di un’ambigua governabilità.

            Per tornare alla questione Berlusconi, direi che su di lui è stato detto di tutto. Spesso in modo volgare, con l’obiettivo di farlo apparire un mostro, un nemico da abbattere. Una strategia che va avanti da sempre ma che in realtà non ha funzionato. E ora che è stato “riabilitato”, termine che rende l’idea di ciò che vado dicendo, probabilmente si dirà che quel “mostro”, forse, tanto mostro non è. E che probabilmente tornerà ad essere uno tra i pochi protagonisti del confronto, piaccia o non piaccia ciò che dice. Una sorte, sotto certi aspetti, che lo lega a Bettino Craxi, condannato per corruzione e fuggito dal suo paese per sottrarsi alla giustizia. E quando il regime tunisino di Ben Alì, noto campione di democrazia, decise di dedicargli una strada di Hammamet, la classe politica italiana, specializzata nell’occuparsi di falsi problemi per non risolvere quelli veri, si infervorò cosi tanto che fu invitata ad ispirarsi al luminoso modello tunisino, nell’ambito di “una revisione politica collettiva”.

*Docente di Sociologia del Diritto – Criminologo