BABY GANG O BABY OUT. QUALCHE SPUNTO DI RIFLESSIONE

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di Alfredo Grado*

E adesso ci mancava anche il Ministro Minnniti a rincarare la dose, visto che con le sue dichiarazioni in merito alla escalation di violenza agita negli ultimi giorni da minorenni e giovani adulti ha sostanzialmente enfatizzato i fatti per motivi, visto il periodo, chiaramente elettorali.  Nessuno me ne voglia, ma non resta altro che pensare a questo  quando nel corso della riunione sulla sicurezza tenuta ieri 16 gennaio presso la Prefettura di Napoli sono stati paragonati certi comportamenti a quelli utilizzati da gruppi militari o terroristici poiché, avrebbe sostenuto, “agiscono a caso e sono imprevedibili”.

Certo, dopo gli ultimi episodi a Napoli e provincia le  baby gang hanno assunto una visibilità senza precedenti. Per la frequenza e, in molti casi, la spregiudicatezza attraverso cui hanno espresso l’infrazione di leggi e regole. Tuttavia, più che militarizzare una città sarebbe stato opportuno cominciare a capire per conoscere e, successivamente, intervenire. D’altronde, l’enfasi riscontrata sui mass media  non corrisponde ad altrettanta attenzione posta dalla letteratura scientifica, a causa dell’apparente irrilevanza rispetto alla devianza generale, cui fa seguito anche un atteggiamento diverso da parte dell’opinione pubblica. Resta il fatto che in termini associativi per baby gang si intende un gruppo dominante che tenta di imporsi in un sistema di relazioni  asimmetriche. Spesso i protagonisti sono ragazzi di buona famiglia, malati di noia e benessere che cercano nella gang lo strumento per conquistare un dato status sociale.

I contesiti familiari problematici sono certamente la prima causa precipitante di questo disagio generazionale. Conflitti, separazioni, divorzi, perdite, latitanza del controllo genitoriale, abusi di vario tipo. Provenienza da famiglie multiproblematiche spesso affiliate a loro volta a contesti devianti. Ma la sociopatia tipica della gang può discendere anche da contesti famigliari eccessivamente accondiscendenti o iperprotettivi.

Non sempre, come sostiene qualche esponente politico e qualche “scrittore”, a indurre comportamenti antisociali è unicamente il fattore economico. Il quotidiano di questi  ragazzi pullula di messaggi crudi, sovreccitanti, alienanti, che affossano in loro la capacità di interpretare adeguatamente la legalità. La soglia dell’illecito scende. Minori ed adolescenti tendono a percepire la violazione delle norme meno grave rispetto al passato. La criminalità, quindi, diventa una trasgressione ludica. Una filosofia dello sballo “costi quel che costi” che va a riempire il vuoto etico in cui fatalmente sono costretti a crescere. A ciò si aggiunga il ruolo della scuola, che sconta una noncuranza imbarazzante rispetto a questo tipo di crisi esistenziale.

Famiglie e scuole sono eticamente deresponsabilizzate. Rinunciano al loro mandato sociale, ovvero a quella funzione mediatrice che è bussola di una personalità che si sta formando.

 Militarizzare una città per arginare quello che viene definito un fenomeno, usare la “tolleranza zero” di Rudolf Giuliani, sembrano sinceramente i classici contentini attinti da quella cassetta degli attrezzi non-attrezzi. Utilizzati ogni qualvolta non si sa di cosa parlare o, nella migliore delle ipotesi, predisposti per rivelare che lo Stato c’è. Tuttavia, è parere dello scrivente che uno Stato che agisce in tal maniera non fa altro che utilizzare lo stesso linguaggio di questi ragazzi. Imporsi con la forza non serve, proporsi con cognizione di causa e autorevolezza forse…

*Docente di Sociologia del Diritto – Criminologo