Poco dopo essersi sposata, Virginia perde completamente la memoria. Suo marito Robert, straziato dal dolore, prova a farla tornare in sé raccontandole a ritroso la loro storia, come si sono incontrati, conosciuti e innamorati. Non riuscendo nel suo intento, decide di portarla in una ospedale psichiatrico, sotto la sorveglianza e la cura del Dottor Mark Kik.
Un’ambientazione tetra, una storia cupa e un senso di angoscia e claustrofobia: “La fossa dei serpenti” è una pellicola che non sente i suoi anni (il film, diretto da Anatole Litvak, tratto dall’omonimo romanzo di Mary Jane Ward, è del 1948) e riesce a mostrare la condizione di alienazione dell’uomo. Virginia è spaesata, confusa, ha perso le sue radici e le sue certezze; inoltre, l’ospedale in cui è rinchiusa le comporta una regressione piuttosto che un miglioramento. La clinica psichiatrica, infatti, è un luogo disumano e terrificante. I medici (tranne il Dottor Kik che crede nella possibilità di guarigione attraverso il metodo psicanalitico freudiano) sono saccenti e anaffettivi, emotivamente distanti dalle pazienti, che sono vestite con un’identica casacca carceraria e hanno tutte lo sguardo perso nel vuoto. Il luogo di cura è diviso per reparti, in base al grado di malattia delle ricoverate, ed è composto di celle buie, spoglie, con solide sbarre alle finestre. Un luogo invivibile, paragonabile più ai gironi danteschi che ad un istituto in cui affrontare e superare un problema mentale.
Nell’antichità si pensava che abbandonando un malato di mente in un luogo che avrebbe fatto impazzire un sano come una fossa gremita di serpenti, il malato sarebbe diventato sano: da qui il titolo dell’opera. La pellicola di Litvak mostra una violenza tangibile, che lo spettatore inevitabilmente percepisce. Dimostra anche di avere coraggio, mostrando i metodi di cura adottati in quegli anni, senza aver timore di schierarsi e senza cercare di sollevare scalpore. Il regista ottiene risultati efficaci ed effetti d’alta drammaticità senza mai eccedere.
Un altro elemento da sottolineare è che il film è tutto al femminile, una sorta di “prequel” di “Ragazze interrotte” (1999), una pellicola che colpisce, forse anche in maniera aggressiva, ma è anche un film intimo e personale, che aiuta riflettere e ad osservare, ad analizzare ogni emozione.
“La fossa dei serpenti” delude solo nel finale banale in stile “vissero felici e contenti”, poiché stona con i contenuti complessi che il regista ha raccontato senza fare sconti per nessuno.