TUTTA LA NOTTE – terza e ultima puntata –

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  –   di Elvio Accardo  – maria TUTTA LA NOTTE   terza e ultima puntata  LEGGI LE PUNTATE PRECEDENTI:

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Il telefono ricominciò a squillare, questa volta il suono arrivò alle sue orecchie, lieve, quasi inudibile, i tre metri che lo dividevano dal telefono erano coperti di schiuma, il suono non era lontano, ma privo di importanza; il buio cupo della sua cella, era meno intenso, e distinse le unghie delle mani quando si accomodò il bavero della giacca blu intorno al collo, il riquadro d’ entrata del pozzo era molto più chiaro, il cielo era vivo,  improvvisamente qualcosa attraversò veloce quello schermo già più luminoso, forse un pipistrello. Le variazioni di luce del piccolo cielo cominciarono ad affascinarlo, e dalla posizione accovacciata passò a quella che per lui parve geniale, allungò le gambe su per la parete del pozzo, e poggiò la schiena sul terriccio, era quasi comoda, accavallò le gambe e strinse al petto la giacca. Desiderò una sigaretta ma erano sette anni che non fumava più, sarebbe stato così ovvio prendere dalla tasca i fiammiferi e illuminare quel luogo, ma a lui non passò mai per la testa, potenza dei non fumatori!

Ancora un altro pipistrello attraversò lo schermo sul fondo del cielo ormai sgombro di nuvole, chiaro, tanto che se spostava la testa verso l’angolo del fondo, vedeva la sagoma nera della coda della sua auto. Sorrise, e pensò che la posizione che aveva trovato, diminuiva la pressione della sua vescica.

La notte gli apparve finalmente notte, senza incubi, e lui disteso a guardare il programma che la natura gli offriva attraverso quell’insolito televisore, si domandò se prima o poi l’arco che percorreva la luna, passava sopra di lui. Quel televisore così originale, non solo gli offriva immagini vere, e anche in diretta, ma aumentava la sua attenzione.  Immagini della sua memoria presto si sovrapposero a quelle del cielo, come un fondo argenteo su cui proiettare i ricordi arricchiti dagli odori della natura circostante il pozzo, che finalmente annientavano gli umori ammuffiti dell’antro.  La memoria gli portò negli occhi, illuminati dal riflesso del cielo, il ricordo del “pantano del monaco”, una depressione del terreno a circa trecento metri dalla casa di zio Nicola, che d’inverno era piena d’acqua e si estendeva per cento metri di diametro, sommergendo la spiaggetta di ghiaia arrivando a lambire il pioppeto che copriva tutta l’area circostante, e che arrivava fino alla masseria di zio Nicola. D’estate si riduceva ad uno stagno di venti metri di diametro, che veniva utilizzato per abbeverare gli animali delle masserie, alimentato solamente dalla gorgogliante “sorgente del monaco”. Questo stagno, da maggio a settembre era la stazione balneare per tutti i ragazzi del luogo, e la breve spiaggetta di ghiaia, la scuola dove la vita, danzava in forme impreviste i suoi ritmi e le sue scadenze.

“Il pantano del monaco” era detto così non perché c’entrava veramente qualche monaco in qualche maniera, ma perché in quel pioppeto, sulle rive del pantano, cresceva una specie di cardo che aveva nella sua forma adulta sembianze che ricordavano un saio monastico, una forma strana che però gli consentiva di raccogliere all’alba la rugiada, che a gocce riempiva una specie di cappuccio formato dal contorcersi delle foglie, al centro della pianta permettendogli di conservarsi umida sempre, e così sopravvivere alla calura più torrida d’estate. Questo cardo, era anche cibo che veniva preparato in molti modi, tutti ricordavano la sua utilità in tempo di carestia o di guerra.

Giovanni ricordò quando a tredici anni, si trasferì a Roma con la sua famiglia, dopo che il padre aveva venduto la sua parte di masseria paterna a suo zio Nicola; salutò sua cugina Maria allora diciassettenne gridandole “Ciao” nove volte dal finestrino della 1100 blu di suo padre.  Gli altri due fratelli di Maria, Pina e Vincenzo rispettivamente di dodici e undici anni, li aveva salutati prima correndo a perdifiato dal colle al pioppeto nell’erba medica già falciata, e stesa al sole di Maggio per diventare fieno.  Nel Settembre dell’anno successivo erano tornati tutti da Roma, ospiti di zio Nicola, perché la madre di Giovanni era stata scelta per fare da testimone alle nozze di Maria, che andava sposa ad Amerigo, assunto nelle ferrovie come cantoniere due anni prima. Di Amerigo giovane, Giovanni ricordò la rude natura campagnola, e la maniera strana di esprimere il suo affetto per Maria: ogni qualvolta si avvicinava a lei la pizzicava, non forte, ma in maniera molto fastidiosa, Maria una volta gliene parlò.

Il cielo rischiarato dalla luce lunare illuminava buona parte del pozzo, e solo una breve lama d’ombra, netta, si stagliava in nero per contrasto, ma era il segno inequivocabile che il percorso dell’astro passava di lì, ed eccola, bianca, pallida, ingenua e vibrante cominciò ad entrare con il suo lucore latteo, nel quadro che Giovanni guardava estasiato.

La sua memoria lo travolse ancora una volta, riportandolo sulla sponda del pantano la notte prima delle nozze di Maria, con Pina, Vincenzo, e Sabatino, Gerardo, Marilena ed altri, di cui non riconobbe i visi. Era molto tardi e la gioia di rincontrarsi con il gruppo di cugini e amici era alle stelle, dopo un pomeriggio passato a giocare a pallone era stato ricevuto tutto il gruppo di ragazzi, sudati, con gli occhi più grandi che mai dalla zia Teresa e dalla mamma di Giovanni, che avevano offerto loro il pane ed un tegame di polpette fritte, in quell’enorme cucina dell’antica casa al centro della quale troneggiava un grande camino a tetto, con panche in pietra al di sotto.

D’inverno quando era acceso, sembrava un’altra cucina più piccola, al centro di quella più grande; ora su tutti i fornelli, nel forno, e ovunque si poteva cucinare c’erano dei pentoloni dentro cui ogni ben di Dio cuoceva. Le due donne, più comare Assunta e zia Pasqualina, la donna che da sempre aiutava in casa, ma non era una serva però, era stata la nutrice dei miei genitori, erano impegnate a cucinare pietanze per il pranzo di nozze che si sarebbe tenuto sull’aia il giorno dopo, sotto il pergolato zeppo d’uva fragola. Il gruppo di ragazzi, fece l’ultima ricca bevuta d’acqua, dalle bottiglie, già in fresco nel lavatoio di pietra per l’occasione anche colmo di pezzi di ghiaccio coperti da sacchi bagnati, e s’incamminò, al buio, verso il pantano, molto ridotto quell’estate tarda, dove il profumo di menta selvatica si miscelava al canto assordante delle rane. Durante la partita di pallone, avevano già bevuto abbastanza, ma quella era un’occasione speciale, la gara del “pisciolungo” avrebbe celebrato quell’avvenimento: il ritorno di Giovanni. Dall’anno prima, la gara non l’avevano più fatta, molte ragioni avevano fatto dimenticare quel rito, prima tra tutte l’assenza di Giovanni, un’assenza di cui gli altri non avevano mai parlato. A quella gara Giovanni era sempre stato il secondo, sempre dietro allo stesso rivale: Sabatino, Sabatino Leccio ripetente alla seconda e alla terza media, collega di banco nell’anno prima. Giovanni tredici anni, Sabatino quindici compiuti, passava metà dell’anno scolastico in tutti i dintorni del paese, mai a scuola; ma pisciava così lungo, con un arco che partiva dal suo pene, e raggiungeva quasi un terzo del laghetto, partendo però dal pontile di legno che loro stessi avevano costruito e che si allungava verso il centro del pantano per circa quattro metri.  Era quella la gara del “pisciolungo”, era campione chi raggiungeva una distanza maggiore pisciando dal pontile. Era questo gioco riservato ai maschi, le ragazze facevano il tifo e poi da giuria, questa gara, la facevano durante tutta l’estate sfidando chiunque, il primo era sempre Sabatino, il secondo sempre Giovanni. Quella sera, la piccola processione si avviò lungo il sentiero buio, che partiva da dietro la conigliera attraversando il pioppeto. Il gruppo con le vesciche gonfie e doloranti, dopo che le ragazze avevano preso posto lungo la riva, cominciarono a disporsi in riga, spalla a spalla, sul pontile del pantano. Le nuvole coprivano la luna, ma a tratti le stelle scintillavano nel profondo blu della sera, bastava poco per illuminare il pantano, la cui superficie brillava a chiazze diffondendo un chiarore che agli occhi dei ragazzi bastava. Gli incitamenti e le risate delle ragazze, superavano i lazzi e l’eccitazione dei ragazzi quando si disposero in ordine, a Giovanni toccava provare per ultimo, così aveva destinato la conta eseguita con i piedi ancora sulla riva.  Tutti tirarono fuori il pene e si disposero sul bordo di legno, Maria arrivò trafelata al pantano per riportarli a casa, era molto tardi e i cugini dovevano fare il bagno, e presentarsi puliti al suo matrimonio. Era tardi e zio Nicola aveva chiesto che tutti dovevano rientrare, toccava quindi a Maria, andarli a chiamare, anzi fu lei ad offrirsi sapeva dove trovarli. Maria li chiamò, ma tutti la pregarono di aspettare che la gara del “piscio lungo” fosse ultimata, tanto mancava solo l’esibizione. Lei rimase e prese posto tra le giurate, e subito, come tante altre volte, rimase coinvolta dalle risate gioiose. Dopo Vincenzo toccò a Gerardo, poi al campione in carica, Sabatino, il cui corpo s’inarcò ad arte, per sporgersi oltre il legno del pontile, poi con un forte urlo schizzò urina fumante verso il centro dello stagno, durò tanto la sua esibizione, e gli applausi dei giurati ed anche di Maria furono lunghi, ma gli applausi non smisero neanche quando Sabatino con il pugno chiuso in segno di vittoria, al colmo dell’entusiasmo si voltò verso il pubblico, non smisero di applaudire perché l’incitamento era per Giovanni, la festa era sua, per il suo ritorno.  Giovanni aveva provato un pizzico di vergogna a vedere Maria, e già tentava di nascondere il suo membro, ma la pressione dell’urina e la tensione della vescica dolorante dettero a lui un vigore mai provato, gli applausi ininterrotti e il suo nome gridato, lo resero al pari di un eroe, e diede la stura alla sua urina alzandosi sulle punte dei piedi, lo schizzo salì in alto, poi si allungò come non era mia successo, e ricadde lontano,  rompendo la chiazza chiara riflessa dall’acqua, in una esplosione di piccole luci disordinate, mentre un grido si levò da tutti i presenti che unirono applausi ad applausi; un “piscio lungo” così non s’era mai visto.

Aveva vinto tutti, non era più il secondo, era il campione. La gioia e l’orgoglio spazzarono via il bruciore del basso ventre, era felice.  Tutti tra risate e grida, si avviarono di corsa verso il sentiero buio che portava alla masseria, Maria aspettò Giovanni che per ultimo giunse al sentiero, il bruciore era ricominciato e chiese a Maria di avviarsi, ma lei capì, era successo altre volte, per aver trattenuto troppo a lungo la gran quantità di liquido nella vescica, bastava però fermarsi qualche minuto, e il dolore spariva.  Maria disse “Giovanni sei stato grande, hai umiliato tutti, però adesso distenditi cinque minuti qui, sul prato, vedrai che ti passa.” Giovanni obbedì muto, ben sapendo a cosa alludesse; si sedette e poggiò la schiena a un pioppo, distese le gambe con le mani sul ventre. “Come va il conservatorio” chiese Maria, “tua madre è molto fiera della tua bravura, peccato che non c’è qui il pianoforte, avrei voluto sentirti, chissà se sei capace già di suonare la marcia nuziale.” Giovanni sorrise e aggiunse “Oh no, è troppo presto, sto solo al primo anno, facciamo solo studi e qualche sonatina, però ti prometto che la prossima volta suonerò per te” dimenticando che il pianoforte non c’era. Nel buio Giovanni distingueva bene il viso di Maria, che s’era inginocchiata accanto a lui, un viso asciutto, con una bocca sottile molto vivace, che scopriva straordinari denti regolari e lucenti un po’ all’infuori, gli occhi grandi e neri come i corti capelli a caschetto, una ragazza davvero bella per quei luoghi.  Giovanni parlò piano: “Quanti pioppi, così bianchi di giorno e così alti, nel buio sembrano argentati, lo sai che gli alberi di notte danzano? Si spostano lenti da un posto all’altro, si scambiano di posto fino al mattino, e si muovono solamente con la musica”; ma quale musica – fece Maria sorridendo “Quella che fanno le foglie quando c’è il vento, oppure al massimo con la musica dell’acqua che scorre nei fiumi, per questo che di notte ci si può sperdere nei boschi, se lasci un segno vicino ad un albero per ricordarti dove sei passato, rischi di ritrovarlo da un’altra parte oppure mai più”.

Maria travolta da quest’attimo dolcissimo, disse: “Giovanni fammi gli auguri, domani mi sposo, e giuro sull’anima mia che sono felice, ma quante cose non farò più insieme a voi, questa è stata  la mia ultima sera di ragazza, l’ultima gara di “pisciolungo”,  e insieme a tanta felicità, ho qui nel cuore tanta tristezza, un languore che non conoscevo, fammi gli auguri Giovanni, pensami ancora insieme a voi sempre, fino a che ti ricorderai di me”.  Un nodo strinse la gola di Maria, ma continuò: “Lo sai, Sabatino mi aveva fatto giurare che se avesse vinto la gara del “pisciolungo”  gli avrei dovuto mostrare il seno, te lo dico perché è solo una delle tante scemenze che dice, anche il mio giuramento era finto, un gioco che abbiamo fatto sempre, uno di quei giochi che mi hanno aiutato a crescere, a diventare domani una sposa, ma il campione sei tu Giovanni, solo tu, per sempre, e a te che do i miei ricordi, la mia gioia di ragazza”.

Maria si alzò e fissando Giovanni, mosse le sue mani sotto la maglietta rossa a girocollo, scoprendo il seno. Muta, solo i lievi fruscii misteriosi della sera accolsero il biancore eburneo di quella tenerissima offerta. Giovanni incantato, si alzò lentamente fissando il petto di Maria, soggiogato da tanta meraviglia, allungò la mano come ipnotizzato fino a toccare quella piccola luna che nel buio del cielo splendeva di luce propria, una luce magica e suadente che ammaliò il ragazzo; quella notte Giovanni veramente toccò la luna, la sua mano gli trasmise un mare caldo di dolcezza, la commozione gli strinse per un attimo la gola, mentre Maria veniva coperta da un mantello di brividi. La stessa luna, vedeva adesso, pallida e opalina, viva come quella di Maria, il ricordo così intenso, in un luogo diverso e dimenticato; Giovanni con gli occhi spalancati sulla bocca del pozzo si commosse e pianse. Si rilassò come non si era mai rilassato. Giovanni s’era pisciato addosso, ma ormai non gliene importava più. Alle sei del mattino seguente, gli operai del cantiere lo trovarono addormentato rannicchiato come dormono i bimbi quando sono ancora dei feti.