IL DIARIO – prima puntata

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  –     di Elvio Accardo   –                baule antico IL DIARIO   prima puntata

II treno rallentò fino a fermarsi.

Scesi sul marciapiede deserto, mentre sul mare il cielo diventava rapidamente nero, qualche fulmine illuminava l’orizzonte rivelandone il confine. Superai la lunga striscia gialla del limite di sicurezza sul marciapiede, e mi accorsi che ero l’unico passeggero disceso a Miglio D’oro.

Miglio D’oro è una piccola stazione della circumvesuviana, tra Ercolano e Torre del Greco, è una fermata di mezzo per i turisti di tutto il mondo che visitano Pompei, Ercolano e poi le ville vesuviane, ville settecentesche costruite dai nobili per stare nei dintorni della Reggia di Portici, la residenza estiva di Carlo III di Borbone.

Le nuvole nere smisero di correre quando arrivarono sulla stazione mentre io scendevo i gradini che dal marciapiede giungono alla sottostante strada che porta al centro. Un diluvio d’acqua si riversò con scrosci e vento, tentai di attraversare la strada, ma l’incessante strombazzare delle auto, mi fece arrestare e ritornare sui miei passi, anche se stavo attraversando sulle strisce. Tentavo di raggiungere l’altro lato dove un breve porticato mi avrebbe riparato dalla pioggia battente, questa fu l’idea di molti altri passanti, e finalmente quando raggiunsi l’altro lato della strada, bagnato fino alle ossa, rimaneva sotto quel porticato uno spazio appena sufficiente per me.

In quella piccola folla di rifugiati qualcuno mi salutò, mentre dalla punta del suo ombrello chiuso mantenuto di traverso, un rivolo d’acqua mi colava nelle scarpe ormai ridotte a scialuppe. In pochi minuti la pioggia aveva attraversato la mia divisa della Transavia Airlines, compagnia aerea olandese, dove lavoravo come steward sulla linea Amsterdam – Napoli – Dakar.

La mia divisa con tanto di berretto fregiato, tiene caldi è vero, ma se bagnata, ci vuole una settimana per asciugarsi.

La pioggia non diminuiva, il signore che mi aveva salutato e innaffiato con l’ombrello, mi dice: “Comandante, qua non spiove, io mi avvio, se volete un passaggio, io vado verso piazza dei quattro orologi”, “Grazie, vengo con voi”. Il signore apri l’ombrello e ci incamminammo, mentre l’acqua ruscellava ai lati dei marciapiedi trasportando buste di plastica e spazzatura in direzione del mare.

Sotto l’ombrello brevi commenti sulla stagione invernale cominciata pessimamente, poi sul marciapiede inondato del palazzo successivo, davanti a uno sgangherato portone, mi saluta e se ne va. Rimango solo in un deserto d’acqua   dove facevo da obiettivo agli spruzzi che ogni auto produceva passandomi accanto.

Quando si è bagnati fin sulla pelle come lo ero io, non importa più ripararsi, si procede rilassati e rassegnati, solo con la testa tirata nel collo, pensando che in definitiva hai finalmente capito bene che cosa è una “bomba d’acqua”.

Dalla stazione a casa mia sono circa seicento metri, li faccio sempre volentieri a piedi, incontro gente che conosco da bambino, amici con cui scambio saluti, chiacchiero volentieri fermandomi a bere un caffè, abito qui da quando sono nato, la mia casa è villa Tosti di Valminuta, ultima casa in fondo a via Niglio, il mare è a cento metri dalla casa e il litorale non è sabbia, ma pietre, levigate e tonde fin sulla battigia, una spiaggia di sassi tondi che visti in controluce sembrano gusci di milioni di tartarughe immobili in attesa dell’alta marea.

La villa è una di quelle settecentesche, citate sulle guide turistiche, ma ormai il suo splendore è tramontato da molti anni, l’ultima guerra mondiale ha contribuito al suo decadimento avendo ospitato truppe americane senza scrupoli, affreschi scrostati e pavimenti in maioliche divelti, suppellettili e mobili, usati per accendere il camino, nel giardino statue e fontane distrutte e così via.

Mio padre fece il possibile per ripristinare l’antico aspetto della casa, ma né denaro né volontà bastarono, per cui oggi ciò che resta di Villa Tosti di Valminuta  mi basta, anzi mi avanza , se penso che dopo la morte dei miei genitori avvenuta venti anni fa, e dopo il matrimonio di mia sorella Matilde, che si è trasferita a Napoli, vivo solo in questa casa , come piace a me, e in fin dei conti tutto il tempo che passo qui, tra un volo e l’altro, e non è molto, lo trascorro in poche stanze, soprattutto quelle del piano terra e il mare , da maggio a ottobre sto con le “tartarughe di pietra”.

Arrivo in piazza “Quattro orologi” e finalmente svolto a sinistra, via Niglio, la strada che porta a casa.

La pioggia sembra diminuire, ed io comincio a contare i passi, cosa che faccio sin da ragazzo, e che mi da sicurezza e gioia pensando che solo trecentocinquantasei passi mi dividono dal vecchio cancello su cui è scritto in lettere di ferro battuto :                   “Ogni guerra è giostra”, un antico motto della nostra famiglia fatto mettere dal mio bisnonno  paterno  che vinse a “telesina” , una variante del poker, questa proprietà contro l’ultimo dei Tosti di Valminuta,  e sopra, una targhetta di ottone, proprio sotto il pulsante del cicalino, il mio nome : “Filippo d’Aquino”.

I trecentocinquantasei passi, sono per me un attraversamento di purificazione, mi rilassano, placano le mie tensioni, la stanchezza accumulata svanisce d’incanto, ogni passo diventa recupero di energie, poi comincia il rumore del mare che inizio a percepire dopo circa duecento passi, e cosi, una sorta di ansia benefica mi libera lo spirito facendomi scordare le paure mai rivelate. Anche questo benessere che provo, è una delle ragioni per cui mi piace stare da solo.

Oggi è più difficile però, sono le undici, bagnato e freddo, con la pioggia che tende a finire finalmente.  Penso a Josèka, la mia collega Hostess nella stessa compagnia aerea olandese.

Io e lei stiamo insieme ormai da cinque anni, è una donna Belga con fluenti capelli rosso tiziano e un paio di occhi verdi che sono uno spettacolo. È una donna fine e dolce, vorrebbe dei figli e dedicarsi a loro, vivere una vita normale con me qui a Miglio d’oro, vicino al mare, senza essere più obbligata a un lavoro che non le piace più, ripetendo infinite volte le stesse cose a passeggeri sconosciuti, mostrando sorrisi ormai automatici che nascondono la sua stanchezza di giorno e di notte. Ci siamo salutati con un bacio davanti a un caffè, al bar dell’aeroporto di Capodichino dove lei proseguiva per Dakar, ed io finito il turno, per casa mia, dandoci appuntamento allo stesso tavolo per poi ripartire insieme domani mattina per Amsterdam.

Mi rendo ben conto che le sue paure e le sue stanchezze, in fondo sono anche le mie, lo stress si accumula e una vita privata sembra un miraggio.  Routine, dannata e disperata routine, che piano piano, usura i miei quarantasei anni e i suoi quaranta. Se non ho messo su famiglia fino adesso, mi sembra difficile che potrei ancora farlo.

Fiancheggio giardini umidi e profumati e accelero il passo. Vedo il mare, le onde rotte lontano, arrivano con violento fragore tra i sassi levigati e lucidi della riva, e il rumore della risacca che trascina cumuli di ghiaia mi arriva come una cupa e sorda cascata lontana.

“Ogni guerra è giostra” rileggo sullo sgangherato cancello, mentre la pioggia riprende con vigore, apro, e attraverso il vialetto salendo i cinque gradini davanti all’ingresso mentre sposto i capelli bagnati e incollati dalla fronte pensando con gioia alla doccia calda che mi aspetta.

L’ingresso è buio, apro gli scuri delle finestre, ma non cambia molto, la pioggia continua e accendo le luci della sala, mi spoglio gettando i vestiti dove capita, in bagno, davanti alle manopole della doccia non penso più a nulla, penso solo al caldo abbraccio dell’acqua.

Un violento getto d’acqua gelida assolutamente inatteso, mi investe, impreco e tiro fuori molte oscenità, ma non servono, l’acqua rimane gelida, mi metto l’accappatoio ed esco sul terrazzo, mi schiaccio sotto il muro e arrivo alla caldaia, è spenta, morta, provo a premere l’accensione automatica più volte, non da segno di vita. La caldaia è andata, la furia della pioggia l’ha messa in corto circuito, penso che neanche il riscaldamento partirà, i termosifoni rimarranno gelidi ed io patirò il freddo tutto il tempo.

Rientro in bagno e con l’asciugacapelli, ritrovo un po’ di calore e di conforto domestico che avevo perduto rientrando a casa. Mi rivesto con un caldo maglione e un pantalone di flanella, metto due calzettoni di lana e preparo un bollente caffè a cui aggiungo una buona dose di liquore di anice, bevo con voluttà, e rientro nella sala dove mi stendo sul divano di fronte al grande camino, a cui penso con nostalgia, un gran bel fuoco avrebbe annientato il gelo della sala, ma erano ormai anni che la legnaia non ospitava neanche un rametto di legno. Mi stendo e mi copro con il plaid che sta fisso su quel divano perché di fianco al grande e settecentesco camino, c’è il televisore, e spesso mi addormento guardando un film, ed è splendido e confortevole coprirsi e dormire. Bevo il caffè con anice e comincio a godere del silenzio intorno a me rotto solo dal rumore delle onde che arrivano rallentando tra i sassi a cinquanta metri dalla casa. Ha smesso di piovere, improvvisamente sono scosso dal suono prepotente e gracchiante del campanello del cancello. Mi alzo e vado al citofono; “Chi è?” una voce decisa femminile risponde: “È il signor d’Aquino? Filippo d’Aquino?” “Si sono io” la voce femminile continua: “Dobbiamo fare una consegna, veniamo su?”  “Accomodatevi”.  Apro e fuori al cancello un furgone parcheggiato su cui in lettere gialle spicca il nome “Gondrand”, mentre due silenziosi e severi uomini in tuta blu trasportano una cassa: “dove possiamo metterla?” dice il primo indicando la cassa, “Mettetela dietro a quel divano “. La donna anch’essa in divisa blu, segue i due con in braccio un involto di plastica nera con la scritta “Gondrand” un grosso scatolo dalla forma di un tamburo che io riconosco come cappelliera, e un borsone appeso al collo.

La donna posa i suoi bagagli sul divano e mi dice:” Firmi qui”, porgendomi un blocco di veline gialle, “Chiedo scusa, ma cosa sono questi pacchi e questo baule, chi li manda?”. La donna mi risponde con un sorriso dicendo che sono venuti a fare la consegna anche ieri, ma non ha risposto nessuno, hanno lasciato l’avviso nella cassetta delle lettere e sono tornati ora, e siccome vanno di fretta dovendo fare altre consegne che la forte pioggia non ha consentito di fare, mi dice di firmare cosi potrà consegnarmi anche una lettera e forse avere tutte le risposte alle domande che avevo fatto, a loro tocca solamente fare la consegna.

Firmo, e mi da una busta, mi saluta e insieme agli altri due scompare chiudendo la porta. Rimango con la busta gialla in mano sorpreso e muto.

Sulla busta nessun mittente, apro e leggo:

Al sig. Filippo d’Aquino, via Niglio 66, località Miglio d’oro Ercolano Na.

Notaro Fabrizio da Ponte, via marina del porto Casamicciola Ischia Na.

Come da accordi presi nel mio ufficio il 15 settembre us. presente la sig.ra Matilde sua sorella, si è proceduto al sorteggio e alla divisione degli oggetti e mobili presenti nel palazzo sito in via V. Colonna, angolo piazza Maltese appartenuto a sua Ecc. don Salvatore Pietro Guevara Migliore suo bisnonno, ereditato da Rosolina e Mafalda, figlie del suddetto, e diviso tra le sorelle. Passato poi in eredità a lei e sua sorella Matilde.

Nell’appartamento di sua nonna Rosolina, nessun oggetto o mobile era presente, le poche cose sorteggiate in mia presenza erano nell’appartamento della sua prozia Mafalda chiuso a abbandonato sin dal millenovecentoventi quando la signorina Mafalda si è ritirata in convento a Pompei (notizie che lei già ben conosce).

Alla signora Matilde sua sorella, è toccata in sorte:

N° Due lumi a olio in vetro lavorato, con motivi floreali in rilievo di colore rosa.

N° Una toletta in legno di mogano con specchio mobile, scolpita a motivi floreali, col piano d’appoggio in marmo bianco, lesionato in due parti.

N° Una custodia in legno, rotta in più parti contenente una racchetta per il gioco del volano, anch’essa rotta in più parti.

A lei, Filippo, à toccato in sorte:

N° Una cassa tipo baule di colore verde scuro, chiusa con serrature a ribalta, ma senza chiavi. il baule risulta pieno dato il peso.

N° Sei ombrellini da passeggio, due di colore bianco con manico d’argento lavorato e inciso, n° due ombrellini di colore beige con manico di ambra con insetti in trasparenza, n° due ombrellini di colori vari, verde e azzurro, con merletti e nastrini con manico di bachelite, (sostanza non meglio identificata, all’apparenza resina plastica)

N° Una scatola di cartone pressato, di forma cilindrica, con manico in cuoio e piccole serrature arrugginite e precarie.

Questi oggetti verranno ritirati dalla ditta trasporti: Gondrand, che provvederà alla consegna.

Per quanto concerne la messa in vendita dei suddetti appartamenti, come da vostra richiesta, aspettiamo il mese di marzo, onde poter apportare i dovuti restauri e rifacimenti, la maggior parte nell’appartamento della sorella di sua nonna Rosolina, la signorina Mafalda, lavori necessari specialmente per gli impianti elettrici, idraulici e così via.

Per qualsiasi comunicazione a questo ufficio, rivolgetevi alla mia segretaria, Signora Lina, che già conoscete.

Distinti saluti, Notaro Fabrizio da Ponte.

Mi tornò nella mente quel giorno dal notaio, avevo rimandato l’appuntamento due volte con forte disappunto di mia sorella Matilde, ma i miei turni di volo in estate sono sempre sconvolti dalla frequenza dei voli e dalla quantità dei passeggeri, mia sorella mi odiò.

Andai in cucina a prendere la bottiglia d’anice, mi sedetti sul divano poggiando il plaid sulle spalle, bevvi un sorso mentre scartocciavo il foglio di plastica in cui erano avvolti gli ombrellini.

Erano di seta, le aste dei manici in legno, sembravano giocattoli per bambine, tanto mi sembrarono fragili e delicati. Il tessuto ancora integro e lucente, solo nei punti di contatto, macchie che mi sembrarono di ruggine, non erano ombrellini da pioggia, ma parasoli che difendevano la pelle bianchissima delle signore tanto di moda in quegli anni. I manici erano bellissimi, pensai che questa prozia, mai conosciuta, neanche in foto, ma neppure ne avevo sentito parlare dalla nonna Rosolina o dai miei genitori, aveva comunque buon gusto.

Nonna Rosolina, la mamma di mia madre, venne a vivere con noi, rimase qui circa dieci anni, lasciò la casa di Forio perché era sola e soffriva di cataratta, vedeva poco e non era facile curarla. All’epoca rappresentava pericolo concreto per la vista. Aveva sposato un giovane armatore torrese, Crescenzo d’Aquino, proprietario di un avviato cantiere navale e di una flottiglia di grossi motopescherecci armati per la pesca del corallo e delle spugne.

Andavamo a Ischia ogni estate, e trascorrevamo li qualche settimana, io e mia sorella tentavamo in tutti i modi di entrare nell’appartamento della zia Mafalda, sempre chiuso accanto a quello della nonna, ma la nonna trovava sempre la maniera per distoglierci da quel desiderio, un giorno disse pure che le chiavi le aveva buttate suo padre in fondo al mare, in un posto così profondo che i palombari non potevano arrivarci, e quindi nemmeno lei era mai più entrata in quella casa.

Spesso però questo negarci l’ingresso, finiva in capriccio, fino a quando la nonna Rosolina non ci disse in gran segreto, a bassa voce che in quella casa abitava il “mazzamauriello” e quando vedeva i bambini si arrabbiava moltissimo e faceva un orribile verso storcendo pericolosamente il suo “becco a vanvera”. Noi ridevamo nervosamente, ma da allora chiedemmo ai nostri genitori di non andare più a Forio dalla nonna tanto fu il segreto spavento per noi, rievocando quella mostruosità nascosta in quella casa.

Posai gli ombrellini accanto al muro tra il camino e il televisore, e presi la cappelliera.  Il malandato manico subito cedette al mio primo tentativo di aprirla, anche le cerniere arrugginite saltarono via poco dopo senza sforzo, l’aprii, una elegante cloche color tortora apparve da quel fondo di polverina bianca che contornava la larga falda del cappello. Quella polverina era ciò che rimaneva delle palline di naftalina che Mafalda aveva messo a difesa della sua cloche. Estrassi il cappello, i tarli tranne qualche punto non avevano procurato molti danni al feltro, un delicato nastro dello stesso colore lo circondava finendo in un fiocco da cui spuntavano delle piccole piume colorate.

Rimango colpito da quel copricapo, mi venne in mente una immagine fascinosa di Greta Garbo. Mafalda pensai, doveva sicuramente essere bella, elegante, e da quelle poche cose arrivate a me dopo tanti anni, da un altro mondo, capii che la mia prozia Mafalda aveva classe.

Mi alzai e in cucina aprii una scatola di tonno, mangiandola con i grissini comprati al duty free dell’aeroporto di Amsterdam la settimana prima. La mia mente rimaneva rapita da quella cloche, e mi trascinava in un mondo mai esplorato, un mondo taciuto e nascosto per tanti anni dalla mia famiglia e che cominciava ad illuminarsi.

Dalle finestre della sala il mare appariva ancora in burrasca, le onde rotte davano un colore bianchiccio diffuso che diventava grigio lontano verso un orizzonte confuso col cielo dove non appariva ancora il confine dell’uno e dell’altro.

Mi avvicino alla cassa, è un elegante baule attraversato per la sua lunghezza di circa un metro e mezzo, da listelli di legno credo di ciliegio, alto approssimativamente settanta centimetri così pure la sua profondità. Soppeso afferrando una grossa maniglia sul lato, è pesante, non immagino il contenuto, forse libri, oppure riviste di moda, non so. Appoggio la bottiglia d’anice sul basso tavolino di fronte al televisore e comincio a spingere e tirare il baule, si muove, scivola sul pavimento e lo tiro davanti al divano, dove è più comodo tentare di aprirlo.

Non sono molto portato per le attività manuali e penso che neanche ricorrerei a un grimaldello per aprirlo, ma ormai mi rendo conto che penetro sempre più in quel mondo antico a me sconosciuto e pieno di segreti mai rivelati, nascosti dalla mia famiglia. Bevo dalla tazza il profumato liquore e comincio a studiare il baule e valutare le possibilità che ho di aprirlo senza arrecare danni.

Due serrature   sul davanti, al centro mi accorgo di una grossa V in madreperla, La V di Vitton, Luis Vitton. Un baule cosi adesso mi appare anche come una cassapanca degna della casa di Mafalda, e mi domando il perché delle chiavi perdute. Mi viene in mente il pacchetto di cacciaviti, comprato al mercato di Dakar, una bustina di plastica contenente ogni misura di piccoli cacciaviti utili per smontare orologi, occhiali ecc. Li cerco in cucina in un cassetto dove tengo pure le posate, ne scelgo uno che penso più adatto e provo smuoverlo tra gli ingranaggi della serratura di  sinistra, e come capita ai grandi scassinatori o a chi tenta per la prima volta di  fare centro, un piccolo scatto libera la  serratura, eccitatissimo dopo questo colpo di fortuna faccio lo stesso movimento col cacciavite nella serratura di destra, nessuno scatto, penso che gli ingranaggi sono arrugginiti e rotti, ma il coperchio si muove, provo una gran voglia di battermi una pacca sulle spalle.

FINE PRIMA PUNTATA