Marco D’Amore dirige e interpreta il suo primo lungometraggio, uno spin-off dedicato a Ciro Di Marzio. Il suo personaggio aveva esaurito ogni velleità nell’ultima stagione di “Gomorra”, la macro-storia criminale più seguita d’Italia; miracolosamente, però, Ciro è sopravvissuto: la punizione è proprio la vita. L’immortalità non si presenta come un dono, ma come una condanna. La pellicola di Marco D’Amore analizza il personaggio di Ciro sin dalla sua infanzia, quando sopravvisse al terremoto dell’80 e crebbe bruciando le tappe, passando rapidamente dal furto allo spaccio, per conquistare poi i vertici della criminalità organizzata. Un bambino, quindi, a cui è sempre mancato giocare, che non ha ricevuto alcuna forma di affetto, che non si è sentito mai parte di una famiglia, se non di quella “criminale”.
“L’immortale”, progetto nato tre anni fa, svela un altro aspetto che spesso si fatica a comprendere: “Gomorra” non è solo un’indagine sociale, è anche e soprattutto una narrazione, un racconto di esseri umani, di anime: quella di Ciro Di Marzio è un’anima sola, complessa, che non si è mai concessa il lusso di apprezzare la bellezza né ha mai dato sfogo alle emozioni. Ciro Di Marzio è la rappresentazione di un unico sentimento: l’ambizione. Un’ambizione talmente forte da essere anteposta a qualsiasi altra cosa. Questa bramosia pian piano si spegne, e si manifesta il bisogno di porre fine a questa vita di sofferenze. La morte, però, è un privilegio troppo grande per lui.La pellicola è una ricostruzione di un personaggio, ed è per questo che si presenta come un’opera intima: Ciro, in fondo, resterà per sempre un orfano abbandonato a se stesso. Marco D’Amore riscrive e approfondisce l’estetica di “Gomorra”: nonostante la morte sia la protagonista indiscussa di tutta la serie (si contano circa millecinquecento morti), mettere in scena un racconto non significa tradirne l’etica. “L’immortale” non è la classica elegia criminale: proprio Marco D’Amore, che ha interpretato a teatro molti personaggi mossi da sentimenti meschini come Jago di Shakespeare, ha deciso di mostrare il lato più umano di Ciro Di Marzio, un uomo divorato dal rimorso e distrutto dalle sue stesse azioni. Il regista approfondisce, quindi, un’anima nera, fornendo allo spettatore degli aspetti inediti e lasciando volutamente altri in sospeso, permettendo al pubblico la possibilità di concludere il discorso. Ciro Di Marzio sa leggere gli sguardi, anticipa le mosse degli altri, ma non parla, proprio perché comunicare vuol dire connettersi con gli altri e la paura (vengono mostrate varie declinazioni di questo sentimento nel film) di distruggere ogni cosa glielo impedisce.
“L’immortale” è un esperimento nuovo, mai testato prima, che ribalta le sorti. Non era mai stato realizzato, infatti, un incrocio tra cinema e televisione. È un racconto oggettivo, senza patetismi, che mostra come un’ambizione scellerata, sfrenata nasconda un’anima tormentata che gode del dolore, del male fatto a se stesso. Insistere poi, sull’infanzia dolorosa di Ciro, non è una giustificazione per le azioni criminose, quanto piuttosto una chiarificazione di un aspetto ancora non noto (seppure facilmente intuibile): Ciro Di Marzio ha vissuto la sua esistenza a metà tra il timore di perdersi e di perdere tutto e la violenza di volersi prendere quello che non si ha con tutti i mezzi (leciti ed illeciti). Quello di Marco D’Amore è un film di destini segnati, di morti e tradimenti: Ciro Di Marzio, che viene mostrato sia come uomo che come criminale, ha scelto il Male perché lo ha sempre conosciuto a fondo, perché si è sentito più a suo agio a vivere con la violenza e la paura. “L’immortale” è, per concludere, un progetto ibrido e necessario, che funge da ponte tra la quarta e la quinta stagione di “Gomorra” e dimostra quanto sia sempre più forte il legame tra cinema e televisione.
Mariantonietta Losanno