IL TIDE 

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La nostra seguitissima rubrica “I Racconti del Melograno” ospiterà, nelle prossime settimane, le opere letterarie dei primi tre classificati delle quattro edizioni del Premio  Anna Castelli.

Il Premio letterario è intitolato alla professoressa Anna Castelli, brillante docente di lettere del Liceo “A. Manzoni”, sociologa, pittrice e scrittrice, venuta a mancare per un male incurabile quattro anni fa. Di qui l’idea di istituire un concorso letterario, quale accattivante strumento didattico-formativo. pesco 1 scaled IL TIDE 

IL TIDE 

    –    di Gabriele Andreani    –   (3° classificato Premio Anna Castelli – 2016)

Posai la coppa sul tavolo della cucina, mi lasciai cadere sul divano con la testa fra le mani e piansi.

Ero o non ero un mostro? Una belva senza cuore, la bestia più spregevole che fosse mai comparsa sulla faccia della terra? Si, lo ero!

Lessi una volta ancora il biglietto scritto di suo pugno:” Al mio grande capitano lascio il mio ricordo più prezioso. Il Tide” e lanciai un ululato di vile disperazione, e mi sentii un idiota.

Sudavo abbondantemente e, dopo che mi fui alzato, senza quasi rendermene conto diedi un violento calcio alla porta. La fitta al piede peggiorò il mi ostato d’animo. Mi coprii di insulti. Buttai all’aria scarpe e calzini come se volessi togliermi di dosso una terribile sensazione di sporco ed esaminai allo specchio una faccia dolorante, una faccia vuota con un’espressione carica di disprezzo, simile a quella di uno scarafaggio ripugnante.

“Chi sei tu?” Mi chiese quella faccia pallida e madida di sudore, invecchiata di cent’anni.

Poiché non avevo voglia di rispondermi, mi infilai nel letto dimenticando di cenare, di telefonare a mia madre, di mettermi il pigiama, di dormire, di sognare. E poi, di sognare cosa? Il tradimento di un uomo detestabile?

Non riuscivo a prendere sonno e a pensare qualcosa di diverso dalla mia ingratitudine, e mi ponevo sempre la stessa inquietante domanda: come avevo potuto rimanere indifferente a una richiesta che sapevo senza appello? Come avevo potuto?

Mi trascinai come un verme fino alla sedia con la coppa di Giovanni stretta in un abbraccio. La guardai, la baciai, chiusi gli occhi e l’alzai al cielo, a un cielo adolescente e impavido. La memoria non mi ingannava. Eri stato tu Giovanni a farci vincere quella coppa, tu che volavi sulla fascia come Gigi Riva, che bruciavi gli avversari nell’area di rigore, che scrivevi poesie con i tacchetti! E ora dove sei ragazzo dallo sguardo fiero, dai polmoni micidiali, dagli occhi implacabili che ipnotizzavano i difensori?

Con le lacrime che mi bagnavano le guance, arrancai verso il letto e spensi il mondo intorno a me, e dormii le sofferenze di uno scarafaggio che era stato ferito a morte da una tarantola.

Quel giorno mi ero recato nella sua casa vuota.

“Vieni a trovarmi appena puoi” mi aveva detto la sorella prima che mi congedassi dalla bara di Giovanni. Quell’inatteso invito aveva peggiorato la mia inquietudine.

“Verrò domani” le avevo sussurrato in modo quasi impercettibile.

Quando ero uscito dalla casa di Maddalena, tenevo in mano la coppa di Giovanni, il suo ricordo più bello, e appesa al collo la mia vergogna.

“Verrò domani” avevo detto a Giovanni dieci giorni prima.

Quel giorno ero in giro col furgone dell’Associazione per le consegne della settimana: vasetti di ciclamini per la raccolta fondi, tre materassi antidecubito, due letti con la manovella, una sedia a rotelle e una capra a tre gambe.

Da quando facevo il volontario cercavo di entrare in empatia con persone che non conoscevo, penetravo in silenzio i dolori delle famiglie, lambivo i travagli di esistenze senza futuro; soffrivo anch’io, a modo mio durante e dopo quelle fugaci visite, ma la mia era la sofferenza di un uomo senza metastasi, di un uomo che più tardi si sarebbe divorato un bistecca guardando la televisione, fumando un toscano aromatizzato alla vaniglia, che avrebbe maledetto le pubblicità e le bollette del gas e della luce, che probabilmente si sarebbe appisolato sul divano lamentandosi perché le immagini sparivano dallo schermo, perché le somme da pagare erano davvero troppo alte.

Ignoravo che in quell’edificio, che mi aveva fatto l’impressione di un tetro dormitorio, abitasse proprio Giovanni. Il cognome non mi diceva niente, nessun suono vicino o lontano simile a quello che echeggiava nel mio cervello ancora senza tracce di Alzheimer. No, non mi diceva niente quel cognome.

Era quella la prima consegna del mattino…

Aprii il portellone, afferrai la sedia a rotelle, guardai di nuovo il biglietto con l’indirizzo e suonai il campanello. Una voce femminile uscì dal citofono con la solita domanda:

“È il volontario dell’Associazione?”

“Si, signora, buongiorno.”

“Buongiorno a lei, quinto piano… l’ascensore è guasto.”

Sul pianerottolo salutai la padrona di quella voce e spinsi la carrozzella oltre la porta. Senza darle il tempo di chiedermi se mi ero affaticato a salire fin lassù, mi affrettai a spiegarle i meccanismi delle piccole leve e i movimenti delle grandi ruote laterali, senza mai fare affermazioni imbarazzanti o commenti fuori luogo, sempre con una smorfia intorno alla bocca che doveva sembrare una specie di sorriso rassicurante.

“È per mio fratello, è uscito ieri dall’ospedale… “gemette la donna in tono affranto.

Non finì la frase. Da una stanza in fondo al corridoio comparve una sagoma in equilibrio precario, una sagoma che doveva essere guasta da qualche parte. Tremava come un chiodo arrugginito dietro una crosta appesa a un muro e, dopo essersi seduta in una poltrona, domandò ansimando chi fossi e come mi chiamassi. Pronunciai il mio nome.

“Fraternali… Fraternali… Giacomo Fraternali… io ti conosco… giocavi a calcio da ragazzo… si, si, tu sei Giacomo… il Gigante Buono!”

“Si, da ragazzo mi chiamavano così” risposi esitando mentre mi affrettavo a decifrare il volto di un uomo che ricordavo di non aver mai visto prima.

“Non mi riconosci, vero? Sono Giovanni, il Tide!”

Mi sporsi in avanti e l’osservai più da vicino. Non vidi altro che un vecchio senza capelli, curvo come un arco, con il viso devastato dall’angoscia, con le vene che tremavano tra le pieghe della pelle. La luce che usciva dai suoi occhi, fino a un attimo prima persi nel vuoto, fu un violento colpo di frusta sul mio album di ricordi.

“Il Tide? Il grande Tide? Il ragazzo dai piedi di velluto, l’ala destra che terrorizzava le difese? Proprio tu?” esclamai incredulo. Un nodo mi stringeva la gola, la voce mi mancava, il cuore pompava nelle vene oceani di sangue.

“Il Tide, il Tide si, sono proprio io, il vecchio Tide… guarda come mi sono ridotto… a cinquant’anni sono già un pallone sgonfio!” disse, dimenandosi inquieto nella poltrona.

Non sapevo più cosa dire, l’emozione di rivedere il grande Tide in quelle condizioni era stata davvero troppo forte, troppo improvvisa e travolgente. Nervosamente mi passavo le mani tra i capelli vergognandomi di essere ancora un uomo sano, di avere persino qualche chilo in eccesso, di essere forse nato sotto una buona stella. Il Tide, invece ora stava giocando una partita senza minuti di recupero, senza tempi supplementari.

Poi, alzando lo sguardo verso di me, mi sorrise con aria così felice che non potei fare a meno di sentirmi più leggero. In un attimo riannodai intorno al cuore le sue leggendarie imprese con i ragazzi del quartiere che lo veneravano e lo temevano, che lo sommergevano di abbracci quando faceva gol da posizioni impossibili.

Ci abbracciammo celando a mala pena l’imbarazzo e ci scambiammo molti ti ricordi quando, che non ne vollero sapere da ammantarsi di tristezza.

Gli dissi, infine, che avevo ancora le fotografie della Stella d’Oro e della nostra grande vittoria nella finale per il primo posto. I suoi occhi si riempirono di lacrime di gioia quando dissi che sarei ritornato il giorno dopo per mostrargliele.

Guardai l’orologio, non potevo più trattenermi. Dissi visibilmente dispiaciuto di… esser costretto a slacciarmi le scarpette.

“Ti aspetto, amico mio, non tardare ho voglia di vederle!”

Mi accomiatai dal suo abbraccio soffocando il mio sconforto ma allo stesso tempo, strano a dirsi, visibilmente soddisfatto al pensiero di poter ritornare dal Tide il giorno successivo con le immagini immortali della Stella d’Oro. Quella stessa sera aprii un cassetto nel quale ero solito ficcare alla rinfusa scartoffie e cianfrusaglie. Gettai sul pavimento figurine di calciatori e di animali, soldatini e medagliette, vecchie cartoline e sbiadite fotografie. Quelle della Stella d’Oro non le trovavo, dove diavolo le avevo messe? Le avevano mangiate i topi? Tirai un lungo sospiro di sollievo: eccole! Ed eccoci qui, Giovanni ed io in bianco e nero con un sorriso che allarga la prospettiva, che esce dai bordi rosicchiati, con una coppa alzata al cielo e la gloria di un istante destinato a diventare leggenda per i nipoti.

Girai la fotografia: Stella d’Oro, 25 luglio 1974. Un giorno straordinario, memorabile, divino! Ed eccone un’altra con tutta la squadra che sorride al fotografo! Giovanni, si… si… è lui, è l’ultimo a sinistra in piedi con le braccia incrociate sul petto, i capelli lunghi e biondi che incorniciano un visetto da furetto, mentre io, inginocchiato e con un’espressione da deficiente, ho la fascia da capitano intorno al braccio! E guarda un po’, quasi quasi non lo riconoscevo… c’è pure Romeo, Romeo che, poveretto, se n’è andato vent’anni fa sotto un camion… Romeo che mi prendeva spesso in giro perché ero scarso col sinistro! E pure il Sorcio è nella foto, è proprio lui non ci sono dubbi! Lui che faceva il gradasso con le ragazzine e si vantava di aver fatto di nascosto questo e quello! Lui che ora fa il prete dalle parti di Milano! Tua sorella che fine ha fatto, Sorcio? A tua sorella io stavo dietro, ma quella s’era presa una cotta per quel pagliaccio del Sandrino che tirava calci come una femminuccia, che faceva il portiere in una squadra che non aveva mai vinto una partita. Quella volta che ci giocammo contro, io ti vidi sugli spalti, Elisabetta, e mi trasformai per te in Pelé: corsi a perdifiato in difesa e in attacco, tutto preso dalla mia passione e schiantai la rete del tuo amore per ben tre volte! A scuola, il giorno dopo ti domandai se ti fossi divertita. Tu mi rispondesti baldanzosa: “Divertita quando?” Ed io, con l’esuberanza dei miei tre gol: “Alla partita della parrocchia!” E tu, con l’intenzione di ferirmi: “No, noi abbiamo perso… tu dov’eri? Non ti ho mica visto!”

Scelsi le fotografie più belle e le infilai dentro una cartella. Dissi a me stesso: “Appena avrò un po’ di tempo andrò dal Tide”, e andai a letto orgoglioso del mio proposito.

Trascorsero due o tre giorni. Mi dissi ancora: “Andrò domani”. E il giorno dopo andai a pagare l’assicurazione e feci tardi dal dottore a causa di un atroce mal di schiena. E il giorno successivo mi dissi ancora: “Andrò domani”. E accompagnai mia madre alla mutua e giocai a mahjong dieci minuti che diventarono tre ore. E poi giurai a me stesso: “Domani, andrò dal Tide”. Ma poi si mise a piovere, tanta pioggia non l’avevo mai vista cadere in un solo giorno, non potevo mica presentarmi al Tide inzuppato d’acqua e di malumore! Mi conosco bene: ho la faccia grigia quando piove sui miei pensieri. E attesi il tempo buono che arrivò due giorni dopo.

Con la cartella stretta sotto il braccio, suonai il campanello con tocco lieve per non disturbare troppo il Tide. Dalla finestra del quinto piano si affacciò una vecchia che, dopo avermi esaminato con aria interrogativa, aprì la porta solo quando ebbe la certezza leggendo il tesserino che ero un volontario dell’Associazione.

Una volta entrato, la vecchia, con gli occhi incollati al pavimento, m’indicò con un gesto eloquente della mano una stanza in fondo al corridoio.

Scivolai lentamente tra due pareti grigie dall’odore triste. La porta della camera del Tide era chiusa. Bussai. Nessun rumore, nessuna voce, nessun sospiro greve. Silenzio. Il Tide stava dormendo? La vecchia dall’altra parte del corridoio mi fece cenno con la testa che potevo, che dovevo entrare. Feci un profondo respiro e girai lentamente la maniglia.

Ciò che vidi in quella stanza mi cadde addosso come un macigno: il Tide, addobbato come uno sposo, giaceva immobile sul letto con gli occhi chiusi, con i tratti spenti, e con un rosario tra le dita!

Lanciai un grido di dolore, mi precipitai dalla vecchia, le domandai, quasi strattonandola, con il sangue che ribolliva nelle vene, quand’era successo, se aveva sofferto, se era stato cosciente…

“Un paio d’ore fa… non ha sofferto… era pieno di morfina”.

“Maddalena dov’è?”

“È uscita per le pratiche”.

Ed io ancora in stato confusionale:

“Vorrei stare qualche minuto con il Tide, posso?”

“Faccia pure… c’è ancora tempo per il funerale…”

Raggiunsi la sua stanza, crollai sulla sedia a rotelle e mi avvicinai al letto. Presi dalla cartella, una dopo l’altra, come se fossero preziose reliquie, le fotografe della Stella d’Oro, e sollevandomi dal bordo della sedia le mostrai a Giovanni, al Tide, al ragazzo con le ali ai piedi.

Gli dissi mille volte e mille altre volte ancora che persino il diavolo lo temeva quando volava verso la porta, che era stato un fenomeno soprannaturale, che era un angelo immortale, che non poteva non ruggire ancora in area di rigore!

Il Tide annuiva felice e non finiva mai di dirmi che ero bravo anch’io, che forse avrei fatto carriera se avessi avuto un po’ più di fiducia nelle mie capacità. Ero alto, possente, un gigante in mezzo al campo! Ah, se avesse avuto lui il mio fisico prestante! E mi fece persino sorridere quando aggiunse, come se volesse prendermi in giro, che la sorella del Sorcio era miope!

“Che ne dici, Gigante Buono” disse infine con aria compiaciuta “di una vecchia rimpatriata tra vecchie glorie? Mi sento ancora forte come un leone, la voglia di buttarmi nella mischia è quella di un guerriero! Pensaci tu, amico mio, a rintracciare i vecchi compagni, tu sei il mio capitano, a te le cose riescono sempre bene!”

Trovai l’idea meravigliosa. Afferrai le immagini della Stella d’Oro e le lancia nella stanza come fossero stelle filanti, come lacrime di carta colorata che cadono dal cielo inesorabili.

2 Commenti

  1. Un racconto affascinante e coinvolgente. Complimenti al giovane autore. Ottima anche l’iniziativa di organizzare un concorso letterario a Caserta, soprattutto in ricordo di una professoressa. La qualità degli insegnanti e la loro sensibilità è fondamento ineludibile per creare cittadini consapevoli e partecipi e, dunque, un futuro migliore. Ormai la lettura del Vs giornale è diventata per me una piacevole abitudine perché ,oltre che di cronaca locale s’interessa di cultura, spaziando tra letteratura, teatro e cinema e tratta le notizie con professionalità giornalistica e sobrietà senza indulgere a commenti sprezzanti e volgari come avviene, invece, per le altre testate locali cartacee e online. Grazie per quanto fate con impegno e dedizione.

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