LA TRENTANOVESIMA ROSA  

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–    di Massimo Moscarella    –                    rosa LA TRENTANOVESIMA ROSA  

Da quando gli occhi di sua moglie bucarono il tetto, videro il cielo e la fecero entrare nel sonno eterno, sono passati quasi venticinque anni, durante i quali nella vita di Alberto sono accadute un sacco di cose, ma dopo quel giorno tutto fu da lui visto sotto una luce diversa.

Anche il modo di rapportarsi con i figli, cambiò. Fino a lì era stata quasi esclusivamente Bianca ad occuparsene, ma dopo la sua morte, Alberto li accompagnò, passo dopo passo, nella crescita.

Fu in questo aiutato dai suoceri e da una signora di mezz’età che gli teneva in ordine la casa, ma sostanzialmente crebbe Carlo e Federica da solo.

Fra i quarantaquattro e i cinquant’anni ebbe un paio di storie, ma non funzionarono. Con Daniela, un’arredatrice d’interni raffinata e colta, gli sembrò la volta giusta, ma dopo sei mesi capirono che il loro rapporto non aveva un futuro.

Alberto insomma, come si dice, non si rifece una vita, ma non si lagnò. Da professionista affermato continuò il suo lavoro senza risparmiarsi, tuttavia di rado tornò a casa tardi, la sera.

Con Bianca venticinque anni orsono fece un patto che avrebbe dovuto durare solo trentanove giorni, ma dopo la morte di lei, paradossalmente Alberto ebbe l’impressione che la loro intesa fosse destinata a durare per sempre. Il concetto provò a spiegarlo anche a Luana, la giovane donna di cui si era invaghito, e per la quale aveva deciso di andar via di casa, ma lei non capì. Fu all’indomani dei funerali di Bianca, che volle incontrarla.

Stavolta non si videro come due clandestini nel solito motel, ma nei giardinetti pubblici, in mezzo a tanta gente che accompagnava i bambini a giocare o portava i cani a fare la pipì.

Lui le spiegò che si era accorto in quei trentanove giorni di amare sua moglie come non avrebbe potuto amare nessun’altra donna. Luana gli chiese con la voce rotta dalla rabbia se per caso non fosse impazzito.

– Certo che no. – le rispose – Pazzo lo sono forse stato per qualche mese, quando ho vissuto come in un sogno, ma adesso sono tornato con i piedi per terra. Bianca era molto malata e non ha neanche provato a guarire. Credo che abbia rifiutato di curarsi perché non sopportava l’idea di perdere uno stronzo come me. Perché lo stronzo che ti sta davanti, lei lo amava. In ogni caso non è solo il rimorso che mi porta a parlare così. Io ho sempre amato lei, e temo di essermene per un po’ dimenticato. Spero solo che mi perdonerai per averti fatto perdere del tempo con me.

Luana nemmeno gli fece terminare la frase.

– Tu sei veramente un idiota. Ma che cazzo credi, che adesso mi laceri l’anima per colpa tua?  Non hai mica a che fare con una zitella in calore che si può scaricare in ogni momento, hai capito? Sei un maiale, uno schifoso, un rimbambito, un … un vecchio!

Chiuse la discussione, e anche la loro inutile storia, con uno schiaffo.

Lui lo accettò senza scomporsi, sebbene tutti li stessero guardando. Non provò alcuna vergogna. Anzi ne fu felice. Gli sembrò giusto.

E avrebbe tanto desiderato che quel ceffone glielo avesse mollato sua moglie.

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Come si diceva, molto tempo è passato da allora, e proprio ieri Alberto si è deciso e ha dato al commercialista l’incarico di chiudergli la partita IVA e sbrigare le altre formalità.

In pratica da oggi è in pensione.

– Caro Alberto, ci dispiace tanto. Di questo studio tu sei stato per quasi quarant’anni il più importante protagonista, e avresti potuto continuare a esercitare la professione per diversi anni ancora. Bastava solo che lo volessi: per noi più che un maestro, sei stato un padre!

Con tal enfasi si sono espressi gli altri due soci dello studio legale.

Alberto sa che il suo ritiro rappresenterà per loro una perdita, ma quei discorsi li reputa esagerati.

La vita va avanti sempre e comunque, e quelli sapranno cavarsela benissimo da soli.

Lui ormai si è tirato fuori. Era stanco di navigare in un mare di carte, di consigliare i clienti, preparare le arringhe, battagliare nelle aule dei tribunali.

Forse però non era stanco solo del lavoro. Forse era stanco un po’ di tutto.

I suoi figli sono ben sistemati.

Carlo è cardiologo; si è sposato sette anni fa e ha due femminucce.

Federica scoprì in età adolescenziale di avere una grande passione per l’agricoltura; prese una laurea specifica e oggi fa l’agronoma. Non si è sposata. Dice che le sta bene così.

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Alberto ancora non è riuscito a capire se la spossatezza che sente da stamattina sia il frutto della suggestione o qualcosa di diverso. Fatto sta che non si sente bene.

Fa freddo, ma lui è stato previdente: prima di uscire ha indossato un maglione a collo alto e il cappotto pesante. In testa si è infilato pure un cappellino di lana. Insomma si è vestito come uno s’immagina un povero pensionato.

Ha pensato che se lo avesse visto così conciato qualche avvocato di sua conoscenza o, peggio ancora, uno di quei magistrati con cui ha lealmente duellato in passato, sarebbe senz’altro scoppiato a ridere, ma la cosa non gli interessa. Anzi, fa sorridere anche lui.

Dopo aver fatto quattro passi nei giardinetti, si è spinto fino alla sede del liceo dove conobbe Bianca. Si tratta di un vecchio edificio in disuso da anni, e da un giorno all’altro ci si aspetta che il comune lo faccia demolire. Pensa che quando si abbatte una struttura al cui interno si è divulgata la conoscenza, sia una cosa triste per tutti. Un sacco di gente in una scuola lascia di sé tanti ricordi. Certe costruzioni non dovrebbero scomparire mai; sarebbe meglio ristrutturale, magari farne tanti piccoli musei. Ma tant’è. Certe regole non le ha stabilite lui.

Sulla strada del ritorno, una vena di tristezza lo tormenta. Sente un dolore improvviso e gli sembra che un chiodo gli si sia conficcato in mezzo al petto. Potrebbe anche essere un infarto, ma pensa che il suo disagio più che fisico sia esistenziale.

Che succede? Non ha più tanta voglia di vivere?

Mah. Vallo a sapere!

Affretta il passo nell’illusione di lasciarsi i brutti pensieri alle spalle, e magari far cadere a terra quel chiodo che adesso pare scavargli lo sterno.

Mentre sta varcando il portone d’ingresso del palazzo dove è rimasto ad abitare anche dopo che Carlo si è sposato e Federica è andata a vivere da sola, qualcosa batte sul suo cappellino, gli rotola sulla spalla e cade in terra.

E’ una rosa.

Una rosa bianca.

Che cosa curiosa! Una rosa fresca in questa stagione?

Siamo a novembre, e le rose sbocciano a maggio.

Questo pensa Alberto.

Poi sospira: ma sì. Una volta era così, ma oggigiorno, con le serre…

Però è veramente strano: da dove è caduto quel fiore? Dal cielo?

Ma che va a pensare. Sicuramente qualcuno stava dando da bere alle piante su un balcone e…

… e, guarda caso, la rosa cade proprio nel momento esatto in cui lui sta per varcare il portone?

Insomma, che cosa si è messo in testa, questo vecchio pazzo?

Comunque è bene raccogliere la rosa, perché non merita di marcire sul marciapiede.

Lui ha sempre pensato che un fiore muore quando lo si recide, ma smette di vivere veramente solo quando appassisce.

Gli viene da chiedersi se anche i fiori hanno un’anima.

Ecco.

Bravo.

Adesso si mette pure a fare il filosofo!

Finalmente si decide.

Raccoglie la rosa e la porta alle narici.

Profuma di buono, ma non gli sembra un semplice profumo di rosa.

Sa di altro, e quasi ne prova paura; ma non la lascia cadere.

Sale le scale molto più lentamente del solito. Ha un po’ di affanno.

Si ricorda che un giorno lontano promise a sua moglie di portarle trentanove rose bianche, prima di lasciarla.

Una al giorno.

L’ultima non fece in tempo a comprarla.

E’ forse questa, la trentanovesima rosa?

– Ma insomma – si chiede di nuovo – Che cosa ti stai mettendo in testa?  Non starai per caso rincoglionendo?

E intanto quel chiodo …  Quel chiodo …

Entra in casa e va a stendersi sul divano.

Che scemo! Non si è tolto il cappotto. E nemmeno il buffo cappellino di lana.

Gli viene da ridere.

Se morisse adesso, l’indomani la donna che due volte a settimana va a rigovernargli la casa, troverebbe il cadavere di quello che è stato un noto avvocato infagottato in un cappottone con in testa uno sciocco cappellino colorato.

Gli scappa un’altra risata.

Ride e tossisce.

Un senso di paura lo prende all’improvviso. E’ una paura forte.

Si chiede chi possa essere talmente pazzo da affermare che la morte si può anche affrontarla serenamente.

L’ha sentito dire qualche volta, ma non ci ha mai creduto.

La morte è la morte.

Fa paura perché è la fine di tutto.

Dopo di lei non c’è più niente.

O forse no?

Ma perché sta facendo quei brutti discorsi?

Si accorge che la rosa gli è rimasta in mano.

La stringe dolcemente fra le dita e la porta nuovamente al naso.

Prima non si era sbagliato: quel fiore non sa semplicemente di rosa.

È qualcosa di diverso. Profuma di Bianca!

Ma sì, è proprio lei.

È lei la trentanovesima rosa.

È la sua Bianca!

È lei il fiore che quando muore non appassisce.

Sono passati quasi venticinque anni da quando sua moglie vide il cielo attraverso il soffitto, e Alberto riconosce ancora il suo profumo.

Anche lui adesso guarda il soffitto e non lo vede. I suoi occhi hanno già bucato il soffitto e vedono il cielo.

O forse no. Ancora no.

Si accorge di non sentire più dolore.

E neanche ha più paura.

Le lacrime che gli scendono lungo il viso non sono, infatti, di dolore.

E nemmeno di paura.

Pensa che forse veramente la morte non sia la fine di tutto.

Un minuto fa ha avvertito la presenza di Bianca grazie al profumo della rosa, ma adesso vede distintamente il suo viso.

Lo vede in mezzo ai petali che stringe delicatamente fra le dita.

Lo fa attraverso il velo di lacrime piene di una strana dolcezza.

Pensando che poco prima il fiore gli è sembrato caduto dal cielo, gli viene spontaneo dedicare alla sua sposa un’ultima frase:

– Alla fine, la trentanovesima rosa l’hai portata tu a me, amore mio.

Bacia lievemente quei petali delicati.

Poi chiude gli occhi e prende sonno.

O forse no.