MILLENOVECENTOQUATTRO

0

    –     di Massimo Moscarella     –            37 0 MILLENOVECENTOQUATTRO

Gilda sapeva che alle tre del pomeriggio nel Gambrinus non c’era molta gente, tuttavia non si decideva a entrare.

Stava per farlo, ma subito ci ripensava: forse era meglio riprendere a passeggiare fino a raggiungere il lungomare di Via Partenope, così lei e suo fratello avrebbero respirato un po’ d’aria buona.

Ma nel Gambrinus c’era la possibilità di respirare la bella vita.

Che fare, dunque?

In un quarto d’ora nella caffetteria era entrata una mezza dozzina di uomini e neanche una donna, e questo a Gilda non piaceva.

Ormai si conosceva bene, e sapeva che un solo sguardo maschile un po’ insistente la poneva in imbarazzo. Figuriamoci se a guardarla ci si mettevano in tre o quattro!

Gilda era una ragazza carina, vestiva anche in modo elegante,  ma la sua condotta, da sempre improntata alla sobrietà come stabilito dalle regole della buona educazione, le induceva un sacco di incertezze.

Lei detestava farsi notare; oltre a ciò le dispiaceva contravvenire al patto fatto con sua madre. La passeggiata sul lungomare era, infatti, solo una scusa per uscire di casa in orario un po’ insolito; sua mamma non si era dimostrata troppo entusiasta, ma le aveva dato il permesso.

Chiaramente le aveva attaccato Costanzo alla gonna.

Il suo fratellino aveva nove anni, e dell’aria marina non importava un fico secco: per lui quella era solo una buona occasione per assistere ai fantastici numeri offerti dai tanti scugnizzi che si tuffavano dagli scogli. La prima volta che li aveva visti all’opera era stato a giugno dell’anno precedente, ma suo zio gli aveva spiegato che la stagione dei tuffatori, condizioni del tempo permettendo, iniziava in aprile.

Lui fantasticava di riuscire a compiere gli stessi atti d’audacia. I suoi genitori una bravata del genere non gliel’avrebbero perdonata, ma era sicuro che, crescendo, avrebbe vissuto le sue avventure salgariane senza doverne dare necessariamente conto a loro. Certo, bisognava aspettare ancora qualche anno, ma nel frattempo ci avrebbe pensato Gilda a coprirlo. Lui, del resto, il mese scorso, tornando a casa non aveva tenuto la bocca chiusa, dopo che lei aveva fatto  mezz’ora di chiacchiere con Gioacchino, nei giardini della Villa? Quei due sfacciati al momento dei saluti si erano perfino stretti la mano guardandosi negli occhi!

Costanzo aveva anche taciuto la settimana successiva, quando Gilda e Gioacchino avevano chiuso il loro idillio lanciandosi vicendevoli accuse e scambiandosi qualche offesa. Insomma, lui ogni volta che usciva con la  sorella pensava di farle un piacere, e per questa ragione si sentiva importante. In realtà Gilda sarebbe più volentieri andata a passeggio con Bice, l’amica del cuore che aveva una libertà che lei neanche osava sognare. A messa la domenica mattina, tanto per fare un esempio, Bice ci andava quasi sempre da sola; e la stessa cosa la faceva quando si recava a scuola di ricamo. Per non parlare delle serate al teatro, dove le era consentito di unirsi a un gruppo di amiche e amici.

Benché si fosse in aprile, faceva caldo, e la gonna di lana la faceva sudare. Ormai lo sapeva bene: con la fine dell’inverno cominciava per lei il tormento dei vestiti, diventati da una settimana all’altra un po’ troppo pesanti. Il fastidio sarebbe durato fino a maggio, quando finalmente avrebbe cominciato a indossare qualcosa di più leggero.

Oltre ai vestiti, quel giorno le dava fastidio il cappello a tesa larga, che rispondeva ai dettami della moda, ma non era per niente comodo. Era stata sua madre a insistere perché lo indossasse; si trattava di un regalo di zia Eleonora di ritorno da un viaggio a Parigi.

Zia Eleonora non va delusa!” Diceva sempre sua madre parlando della parente ricca, e in famiglia tutti capivano che cosa intendesse.   gambrinus scaled MILLENOVECENTOQUATTRO

Il pretesto escogitato da Gilda per restare un po’ nel Gambrinus, era di ordinare uno spumone per sé e uno per Costanzo. Lui avrebbe gradito una granita, e sperava che insistendo un pochino, sua sorella gli avrebbe comprato pure quella.

Gilda non aveva voglia di gelato. Al fratellino non lo aveva confessato, ma il suo unico desiderio era di vedere quel tale Vincenzo Russo di cui aveva sentito parlare.

Cosa gli avrebbe chiesto? Non ci aveva pensato, ma era convinta che quando si ha a che fare con un poeta, qualche idea arriva.

Era noto a tutti che uomini e donne dello spettacolo e della cultura, a Napoli si potevano incontrare sotto la Galleria Umberto I, all’interno del Teatro San Carlo, e nel Gambrinus, appunto.

Lei aveva visto dal vivo diversi attori di teatro e cantanti liriche, ma una cosa è vederli, un’altra è parlarci.

E poi, fino a quando in certi  posti ci sarebbe andata con i genitori, ben difficilmente le sarebbe capitata l’occasione di parlare a tu per tu con qualche notorietà. A lei ancora non era concesso di andare al teatro con le amiche; men che meno i suoi le avrebbero permesso di passeggiare in Galleria da sola, con tutti i gagà e le donnine allegre che di solito la frequentavano.

Per quei divieti Gilda mostrava una certa insofferenza, ma  sapeva bene che a comportarsi con poco decoro una ragazza aveva tutto da perdere. Se era vero, infatti, che si era ormai entrati nel Ventesimo secolo, era altrettanto vero che una ragazza onesta doveva anche saper restare al proprio posto.

Sua sorella Ginevra aveva ventidue anni e si era sposata pochi mesi prima con Ferdinando Della Ragione.  Il matrimonio era stato un buon affare per l’intera famiglia, secondo il modo di vedere di sua madre, che neanche si era chiesta se a Ginevra quell’unione garbasse. Per fortuna Ginevra sembrava una giovane sposa contenta, anche se Gilda pensava che già l’atto di mettere la testa fuori di casa senza portarsi dietro quella peste di Costanzo, sarebbe stato un motivo valido per dire di sì a un bel giovane come Ferdinando.

Due settimane prima, al San Carlo gli sposini avevano assistito ad uno spettacolo di canzoni che gli era piaciuto. Un brano in particolare li aveva colpiti: Maria Marì. Per loro, quella era più di una canzone: era una poesia.  Una struggente, incantevole poesia.

Ferdinando, che era un appassionato di musica, seppe che Maria Marì era nata dal sodalizio artistico Di Capua-Russo. Il primo faceva il musicista; poeta era il secondo. La coppia in pochi anni aveva sfornato già due o tre canzoni di notevole bellezza, ma la loro collaborazione aveva conosciuto degli inizi incerti. Per esempio, la prima canzone che avevano composto, I’ te vurria vasà, aveva partecipato quattro anni prima a La Tavola rotonda,  un concorso che fungeva da trampolino di lancio per i giovani artisti, classificandosi soltanto al secondo posto insieme con altre due. Un giornalista sulle pagine del Mattino senza mezzi termini affermò che nell’occasione i giudici della Tavola Rotonda avevano mostrato una miopia assoluta, che induceva a sospettare che di musica e poesia non capissero molto, ma la cosa finì lì.

Ginevra sapeva suonare il pianoforte, e suo marito le regalò la partitura della canzone che tanto l’aveva colpita. Lei la provò e riprovò per giorni, e quando si rese conto di suonarla abbastanza bene, una domenica, nel dopopranzo, volle farla ascoltare ai familiari.

A tutti piacque.

Gilda ne rimase addirittura stregata.

Temendo qualche sfottò, tenne per sé certe cose, ma da quel giorno in testa ebbe un’idea fissa: conoscere l’autore del testo di Maria Marì.

– Vincenzo Russo non l’ho mai incontrato – disse suo cognato, quando Gilda gli chiese qualcosa sugli autori della canzone che le piaceva – Però Eduardo Di Capua lo conosco bene. Una volta ci ho pure scambiato due parole. Avrà quarant’anni anni, più o meno, e si capisce subito che è una persona capace, anche se, così si dice, ha il vizio del gioco. Nel 1898 ha raggiunto il successo con ‘O sole mio. La conosci quella canzone?

– Ma per chi mi hai preso? – proruppe Gilda – Certo che la conosco!

Erano passati solo sei anni dal 1898, e lei, pur non essendo un’esperta, sapeva che quella lirica aveva già valicato i confini di Napoli e dell’Italia, essendo stata presentata nelle corti e nei teatri di mezza Europa dai più noti cantanti del tempo. Tuttavia non era sui versi di ‘O Sole mio, quanto su quelli di Maria Marì che lei rimuginava, e il suo giovane cuore si era acceso di entusiasmo, pur senza conoscerlo, per Vincenzo Russo.

Davanti al Gambrinus alla fine Gilda diede un calcio all’indecisione, e per la prima volta varcò l’ingresso del locale che i magnifici affreschi e gli stupendi arredi avevano reso famoso.

Appena entrati, lei e Costanzo si sedettero a un tavolino della prima stanzetta che trovarono libera. A un altro tavolo del piccolo ambiente c’erano due uomini. Bevevano qualcosa di caldo, probabilmente della cioccolata. Uno aveva all’incirca quarant’anni; l’altro era più giovane, anche se appariva sofferente.

Nei successivi due minuti, quel poveretto tossì almeno quattro volte.

Dopo aver risposto con un educato sorriso al saluto che i due le avevano rivolto, Gilda gli diede le spalle.

Come riprese la conversazione con il suo amico, il giovane tossì di nuovo; stavolta sembrò sul punto di soffocare.

Ripresosi, nascose il capo sotto il tavolino e sputò nel fazzoletto.

Gilda avvertì un senso di ribrezzo frammisto a pietà.

Al contrario, suo fratello provò solo schifo.

Entrò un cameriere; lei si affrettò a fare le ordinazioni:

–  Gradiremmo due spumoni, prego.

Aveva provato a usare un tono distaccato, come aveva visto fare a zia Eleonora, ma per come sentiva di essere arrossita, capì di aver fatto la parte della provinciale.

Al cameriere scappò un sorriso, ma con aria composta annuì e se ne andò.

Costanzo attaccò subito in tono cantilenante:

–   Io lo spumone non lo voglio. Io volevo una granita di limone.

–  Tu ti mangi lo spumone e fai silenzio! – lo rintuzzò Gilda – la granita si mangia in estate.

Il bambino la guardò con aria di sfida.

–  Vuè. Io ‘o spumon nun ‘o voglio, hai capito? Io voglio ‘a granita,  mannaggia ‘a morte.

Sua sorella lo fulminò con un’occhiata, chiudendo la discussione. Costanzo fu sul punto di piangere. Prima che il cameriere tornasse, in segno di riconciliazione lei gli fece una carezza sulla testa.

–  Dai. Ora non ci roviniamo la giornata. Lo spumone ti piacerà. Però quante volte la mamma ti ha detto che non devi parlare in dialetto? C’è altra gente in questo posto, e non voglio fare delle brutte figure.

–   Uffa.  Ma la mamma ora non c’è. –  protestò Costanzo.

–  E questo che significa? Sono la tua sorella maggiore. Se non c’è lei, comando io.

Il bambino la guardò con aria triste. Lei sembrò pentita per aver osato troppo.

–  Facciamo una cosa. Adesso ti mangi lo spumone e più tardi andiamo per un po’ a passeggiare nella Villa, e lì ti comprerò una granita.

Il ragazzino sorrise contento.

–   Però –  continuò Gilda parlando a mezza voce  – tu devi chiedere al cameriere se in qualche saletta di questo posto oggi c’è Vincenzo Russo.

–  E chi è questo Vincenzo?  Il tuo fidanzato?  –  rise  Costanzo.

Gilda s’indispettì.

–  Ma non dire sciocchezze, scemo!  Che fidanzato d’Egitto! Si tratta di un poeta. Mi piacerebbe vederlo solamente per soddisfare la mia curiosità.

Costanzo si offese e gli venne voglia di replicare a muso duro, ma pensò alla granita promessagli da sua sorella e tacque. Così, quando arrivarono gli spumoni, chiese al cameriere ciò che Gilda voleva sapere. L’addetto al servizio si lasciò andare a un commento beffardo:

– Guagliò, ma tu sei proprio sicuro che questo tuo amico è un poeta? Io non l’ho mai sentito nominare!

Gilda perse l’abituale timidezza e intervenne in tono adirato:

–  Scusate, ma come vi permettete? Mio fratello vi ha solo fatto una domanda.  Cos’è questa confidenza che vi prendete?

L’uomo si rese conto di essere andato al di là del suo ruolo, abbassò il tono e provò a rimediare. Il bambino era innocuo, ma quella ragazza sapeva il fatto suo, dunque gli conveniva metterci una pezza.

– Vi chiedo scusa, signorina. Non volevo offendere nessuno. Il fatto  è che nel Gambrinus si ritrova il fior fiore della Cultura napoletana, ma forse il nome del poeta Vincenzo Russo mi è sfuggito. Colpa mia, per carità. Guardate, ora faccio una cosa … vado nelle salette interne e chiedo agli altri camerieri se qualcuno lo ha visto.

–  Ma no. Lasciate stare. Non è il caso – si affrettò a dire Gilda – Mio fratello era solo un po’ curioso.

Costanzo in altri tempi le avrebbe rifilato un calcetto stizzito, ma adesso era ammirato per il carattere mostrato da sua sorella.

Quando il cameriere li lasciò, intervenne il quarantenne che era in compagnia del giovane dal viso emaciato.

–  Signorina, scusate se mi intrometto. Senza volerlo, io e il mio amico abbiamo sentito i vostri discorsi.

– Ah si? – disse Costanzo con aria sdegnosa – E a noi che ce ne importa?

Sua sorella gli tirò un manrovescio e lo rimbrottò:

–  Ma chi ti ha insegnato a parlare così? Sei un villano!

Avrebbe voluto troncare subito qualsiasi rapporto con estranei, ma per educazione preferì girare intorno al problema. In fin dei conti quei due non sembravano delle cattive persone.

–  Vogliate scusare mio fratello. È ancora un bambino…

Detto questo, si rigirò dall’altra parte. Il signore però non desistette e parlò di nuovo:

–   Ecco, vedete …  il fatto è che io Vincenzo Russo lo conosco bene. E’ un mio amico. Ho anche musicato alcune sue poesie. Permettete che mi presenti: mi chiamo Eduardo Di Capua.

Gilda, imbarazzata da morire, lo guardò con speranza frammista a sospetto.

–   Dite sul serio? Non mi state prendendo in giro?

Il giovane dall’aria smunta pose una mano sul braccio del suo amico e intervenne nella discussione:

–   Il maestro Di Capua sta dicendo la verità. Sebbene, a voler essere precisi, io Vincenzo Russo lo conosco meglio di lui. Se vi fa piacere, posso pure raccontarvi qualcosa sul suo conto.

–  Beh, se non vi disturba troppo… – Rispose Gilda fingendo un certo distacco.

Il giovane fece un altro colpo di tosse e cominciò il racconto:

–  Intanto, dovete sapere che lui collabora in pianta stabile con il qui presente maestro, che è un grandissimo musicista. La canzone ‘O Sole mio di sicuro la conoscete. Ebbene, le note sono opera del maestro.

Intervenne Di Capua:

– Quella musica la composi qualche anno fa, però è con i versi di Vincenzo Russo che ho fatto i miei lavori migliori. Lui è veramente un grande poeta, anche se non tutti lo hanno capito. In verità, credo che i cosiddetti “esperti” fingano di non riconoscerne il valore per invidia. Ci provassero loro, se ne sono capaci, a scrivere I’ te vurria vasà, oppure Torna Maggio! Non so se voi le conoscete. Si tratta di due capolavori. Per non parlare di Maria Marì, composta pochi mesi fa.

Gilda non sapeva che dire. Sembrava rapita. Costanzo invece mostrava solo impazienza. Aveva finito lo spumone e guardava la sorella con aria seccata.

–   Quando ce ne andiamo? Io mi sono scocciato. Voglio andare nella Villa a comprare la granita che mi hai promesso.

Gilda per tenerlo buono chiamò il cameriere e gli chiese se anche loro servissero le granite.

–   Sì. Le abbiamo al caffè e al limone. –   Fu la risposta.

Lei ne ordinò una al limone per Costanzo.

–  Ecco – Disse a suo fratello quando il cameriere andò via – Fra poco arriva la tua granita, così te la mangi e la smetti di infastidire i signori. E voi, maestro, continuate, vi prego. Mi è stato riferito che il poeta Vincenzo Russo vive una tormentata storia d’amore…

Di Capua fu colto di sorpresa. In suo soccorso intervenne l’amico.

–  Sono tutte fesserie, signorina. In verità Vincenzo non ha legami  con nessuna. Lui ama tutte le donne. E’ un… scusate il termine… è un donnaiolo. Scrive versi strappalacrime, ma poi vive in modo dissoluto. Gioca, beve e corteggia tutte le donnine allegre che incontra. Che volete.. è un bel giovane; per giunta è anche ricco.  Secondo voi, uno così si lascia incantare da una donna? Soprattutto se questa non ne ricambia le attenzioni?

Gilda sembrò delusa.

–  Ma come… allora le cose che ho sentito sulla sua vita…

Il giovane si era infervorato nel discorso ed ebbe un violento attacco di tosse. Eduardo Di Capua stava per dire qualcosa, ma lui lo bloccò e  riprese il racconto:

–  Non so che cosa avete sentito, signorina. Probabilmente parecchie sono delle invenzioni. Vincenzo Russo fa il cascamorto con tutte le belle ragazze che gli capita di conoscere, ve l’ho detto. Perfino con le signore sposate fa il galletto.

La guardò con aria compassionevole.

–   Mi dispiace se ci siete rimasta male, ma siete stata voi a chiedere qualcosa sul conto di Vincenzo. Volevate conoscere la verità oppure la fantasia?

Gilda a quel punto aveva cambiato idea. Adesso pensava che quel tale poeta, che fino a mezz’ora prima avrebbe voluto incontrare, forse non era una persona tanto seria.

Costanzo aveva terminato la sua granita. Lei si alzò e sottovoce salutò i due signori con cui aveva parlato. Il suo tono tradiva tanta rabbia, però aveva le lacrime agli occhi.

Il giovane se ne accorse, ma fece finta di niente.

Rimasti soli, Eduardo Di Capua domandò:

–   Perché hai parlato così? Non hai notato la faccia che ha fatto, quella poveretta?

L’altro restò in silenzio. Sembrava assorto. Di Capua cambiò tono e gli chiese come si sentisse.

Lui esitò:

–  Come vuoi che mi senta? Mi sento male! Ogni giorno è peggio del precedente. Mi sa che non passo l’estate.

–  Ma no. Che sciocchezze dici? Ti riprenderai. E fra cento anni sarai tu a fare il funerale a me.

Il giovane rise, ma ebbe subito un attacco di tosse violenta.

Ripresosi, con occhi febbricitanti si rivolse a Di Capua. La sua voce era poco più di un sussurro:

–  Tu mi hai rimproverato per aver parlato in un certo modo. Lo vuoi sapere perché l’ho fatto?

–  Si. Mi piacerebbe proprio avere una spiegazione.

L’amico incrociò le dita delle mani sul ripiano del tavolino e assunse  un’aria sognante:

–  Quella ragazza si è innamorata di un poeta prima di conoscerlo. Vincenzo Russo è povero. Neanche la salute lo sostiene. Ha scritto dei versi. Alcuni sono belli. E allora? La sua vita è cambiata? Si sente felice? E’ diventato bello? Forte? Sano?

Pose il capo sul tavolino e cominciò a singhiozzare sottovoce.

–  Certe volte mi vergogno per essere così malato.

Di Capua, che non si era aspettato quella reazione, ebbe un moto di ribellione:

– Non ritengo giusto quello che dici. – Batté il pugno della mano destra nel palmo dell’altra e continuò – Perdio! Non lo ritengo giusto per niente! Che cosa c’è da vergognarsi, ad essere malati? Uno non ha nessuna colpa se ha la sfortuna di ammalarsi di tisi da giovane.

L’altro non rispose. Smise di piangere, fece un colpo di tosse, scosse il capo e riprese il discorso di prima:

–  La vuoi sapere un’altra cosa? Penso che ogni giovane, come la bella figliola di poco fa, non meriti di sentir parlare di lutti e disgrazie. La signorina è rimasta delusa? Non si aspettava di conoscere un poeta allegro e donnaiolo? Ebbene, sono certo che se le avessimo detto di un poeta triste e in cattiva salute, l’avremmo addolorata inutilmente. Lascia che sia così, Eduardo. Alla sua età c’è da essere allegri, non tristi. Se io le avessi detto la verità, lei avrebbe capito cosa significano per me i versi di certe mie canzoni. Ne avrebbe sofferto. Le mie sono parole che raccontano di passioni disperate. Come disperato è l’amore che provo per Enrichetta.

Fece una pausa. I suoi occhi erano diventati due fessure. Poi riprese:

–  Ho soltanto ventotto anni, ma è come se ne avessi il doppio. Il tuo povero amico poeta morirà presto, caro Eduardo.

Eduardo Di Capua scosse il capo.

–   No, Vincenzo. Tu queste cose non le devi dire. Sono sicuro che ti riprenderai. E vedrai che Enrichetta sarà tua. Lo sarà per sempre.

Vincenzo Russo sorrise.

–  Ti voglio bene, Eduardo. Tu vuoi incoraggiarmi, ma io sento che tutto sta per compiersi. Eppure la mia disperazione più grande è non aver potuto dormire una sola ora con la mia amata. Quando penso a lei, non mi vengono in mente baci, sorrisi e abbracci. Avrei solo voluto dormire un poco al suo fianco, per provare almeno una volta nella vita che cosa vuol dire sentirsi in pace.

Si alzò e barcollò pericolosamente. Eduardo prontamente lo afferrò per la manica della giacca e lo aiutò a non cadere. Vincenzo arrossì come un bambino e abbassò il capo per la vergogna.

Eduardo provò a rompere quel silenzio imbarazzato gettando lì una frase scherzosa:

–  Vuè, guagliò, non fare scherzi. Fammi fare bella figura. Magari fuori incontriamo la bella figliola di prima, ché ti sta aspettando.

A Vincenzo scappò da ridere, ma subito un accesso di tosse maligna gli percosse il petto.

Eduardo aspettò che la tosse si calmasse, poi parlò di nuovo.

Il suo tono era carico di affetto:

–   Coraggio, amico mio. Ti accompagno a casa.

Nota al racconto 

 

Gilda e suo fratello Costanzo sono chiaramente due personaggi inventati, come inventata è la visita al Gambrinus alla ricerca del poeta di cui Gilda si è, senza ancora conoscerlo di persona, un po’ innamorata.

Eduardo Di Capua, Enrichetta Marchese e Vincenzo Russo, viceversa, sono realmente esistiti. 

 

Di Capua è stato un apprezzato compositore di musiche per canzoni, autore della famosissima ‘O Sole mio, che nel 1898 gli diede la notorietà. Figlio di un violinista, nacque a Napoli nel 1865 e non terminò gli studi al conservatorio perché cominciò giovanissimo a comporre musica. Iniziò un sodalizio artistico con Vincenzo Russo sul finire dell’Ottocento, scrivendo con lui nel giro di pochi anni diverse canzoni che non ottennero un immediato successo commerciale, ma che sono diventate delle pietre miliari della musica napoletana.

Pur raggiungendo in quegli anni una certa solidità economica, Eduardo Di Capua non visse un’esistenza serena: ossessionato dal vizio del gioco del Lotto, fu alla costante, utopistica e dispendiosa ricerca di una vincita clamorosa che mai realizzò.  Morì in povertà nel 1917. 

 

Enrichetta Marchese apparteneva alla buona borghesia napoletana d’inizio Novecento. Figlia di un gioielliere, probabilmente di Vincenzo Russo fu sul serio innamorata. Il loro amore non si rese concreto per colpa della differenza di classe sociale cui entrambi soggiacquero.  

  

Vincenzo Russo nacque nel 1876 nel Quartiere Mercato, uno dei rioni più poveri di Napoli. Suo padre faceva il ciabattino, e non poté assicurare ai figli una frequenza regolare della scuola elementare, tuttavia Vincenzo imparò ugualmente a leggere e scrivere, e una, seppur modesta cultura se la formò da autodidatta quando iniziò a lavorare da operaio in una fabbrichetta di guanti, permettendosi l’acquisto di qualche libro.

  Malaticcio fin da bambino e poco istruito, Vincenzo Russo fu ai suoi tempi il poeta più trascurato dalla critica fra quanti scrissero canzoni divenute con gli anni famosissime. Purtroppo la povertà e la sua presunta ignoranza letteraria, fecero sì che i critici lo trattassero con molta freddezza. Del resto, fino allora l’esercizio di scrivere versi rispettando la metrica nel modo tradizionale, era per la critica ufficiale considerato fondamentale. Dunque Russo precorse i tempi, trovando la giusta valutazione di poeta solamente qualche decennio dopo la morte. 

Le sue “I’ te vurria vasà”, “Torna maggio”, “Maria Marì” sono state nel corso di un secolo interpretate dai più grandi cantanti. Anche da quelli non di lingua napoletana: giusto per citarne qualcuno, Enrico Caruso, Josè Carreras e Luciano Pavarotti hanno cantato la prima, mentre il grande Giuseppe Di Stefano eseguì una memorabile interpretazione di Maria Marì.

 

   La vicenda da me immaginata nel racconto “Millenovecentoquattro” si svolge nell’aprile di quell’anno; due mesi dopo, Vincenzo morì di tisi nella sua modesta dimora, assistito dai familiari. Si narra che in punto di morte egli dettò i suoi ultimi versi al cognato che cercava di rincuorarlo. Si tratta di “L’urdema canzone mia” (La mia ultima canzone). Ne traduco in italiano due strofe, giusto per rendere l’idea del tormento di chi le scrisse:

 

 

Non mi parlate più delle rose,

per me queste rose sono senza odore.

Non mi dite “la gioventù è un fiore”,

che questo fiore mio è già morto.

 

Per me tutto è finito!

Addio, belle stagioni,

addio, rose e viole,

io vi saluto.

 

 

 

Sono versi strappalacrime dalla metrica approssimativa? Può darsi. Però se è vera una certa storia, essi assumono un’importanza del tutto diversa. Si racconta, infatti, che Enrichetta Marchese, la donna amata disperatamente da Vincenzo, venuta in possesso di quei versi trascritti dal cognato del poeta su un piccolo foglietto di carta, ripiegò il bigliettino e lo nascose all’interno di un medaglione.

La ragazza in seguito si sposò, ebbe dei figli, e forse fu anche felice, ma quel medaglione lo portò gelosamente al collo per tutta la vita. 

 

Nel mio racconto ho immaginato che Eduardo Di Capua si aspettasse che in un modo o nell’altro Enrichetta e Vincenzo fossero uniti per sempre, e mi piace credere che il medaglione di Enrichetta, con dentro gli ultimi versi di Vincenzo, abbia significato proprio quello.