LA CALABRIA SAUDITA

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   –       di Vincenzo D’Anna *          –                     

Il tempo passa, ma la situazione politico-amministrativa nelle istituzioni elettive della regione Calabria, continua a destare scalpore. Famosa fu la relazione di tipologia omerica, ovvero tramandata a voce da un cieco, che i revisori dei conti ed i funzionari contabili di quell’ente fecero agli ispettori inviati dal ministero del Tesoro, per definire, anche sommariamente, l’ammontare del debito accumulatosi, nel corso degli anni, in quella regione. Gli ispettori, e successivamente i magistrati della corte dei Conti, non ne vennero mai a capo. Parliaoci chiaro: da quelle parti esiste un intreccio consolidato tra burocrati infedeli ed addentellati malavitosi, le famose ‘Ndrine, interessate direttamente, oppure tramite propri fiduciari eletti, a controllare gli enti locali e quanto di redditizio ne può derivare. Dalla storia di quella popolazione emergono tesori di una civiltà che fu il centro della Magna Grecia e trovò nella scuola Pitagorica un’eccellenza culturale ancora oggi inarrivabile. Una riflessione, quest’ultima, che ci rivela come la cultura antica, per quanto grande essa sia stata, non si sia rivelata sufficiente a porre un argine al diffuso senso di diffidenza nei confronti dello Stato inteso come luogo giuridico ed istituzionale in cui conservare l’etica pubblica, lo Stato di diritto, oltre che la lotta all’inclinazione a coltivare interessi solo particolari e personali. In sintesi: ognuno si arrangia e si adegua alle circostanze secondo i canoni del cosiddetto “familismo amorale”, quella teoria che i sociologi Banfield scoprirono nella loro ricerca effettuata sulle “basi morali” delle società più arretrate. In un paesino della Basilicata, Edward C.Banfield e la moglie Laura Fasano, rilevarono comportamenti tipici di chi agisce ignorando il bene comune e gli interessi della collettività. Chiunque detenesse un potere, fu la loro scoperta, era disposto anche ad infrangere regole morali pur di acquisire un beneficio per se stesso, il proprio nucleo familiare e la categoria sociale di appartenenza. Insomma la ben nota tara sociale che nei secoli ha alimentato consorterie e gruppi di potere locale, inamovibili in quanto affini alle pratiche politico-clientelari ed a quelle della rendita elettorale. Certamente, va sottolineato, gli esiti rilevati dai coniugi Banfield non possono essere generalizzati né limitati ad una determinata area geografica, né considerati espressione di un’atavica abitudine a considerare lo Stato cosa diversa ed estranea a se stessi e non, come pure dovrebbe essere, l’espressione di un patto sociale, di una tutela collettiva, di una premessa sicura di evoluzione. Ma tant’è, il dato sociologico, ahinoi, risulta ancora troppo distintivo, purtroppo, di buona parte del Mezzogiorno d’Italia. E veniamo ai giorni nostri, con la querelle ormai senza fine, esplosa sulla Sanità in Calabria. Anche in questa regione l’autonomia organizzativa concessa è stata utilizzata per strutturare ambiti gestionali e politici più che per rispondere alle esigenze vere e proprie della rete socio-sanitaria locale. Due milioni di persone distribuite in territori distanti e spesso impervi e difficili da raggiungere, giustificarono il prevalere delle logiche locali e la parcellizzazione territoriale. Il sistema sanitario calabrese fu ridotto ad una sorta di “ammortizzatore sociale”. L’ospedale di “zona”, più che strumento di sanità pubblica, divenne la testimonianza più eclatante ed evidente di un potere politico gestionale. Con l’aggravante che alla Calabria, come alle altre regioni del Sud, non fu mai riconosciuto un equo finanziamento dal riparto del fondo sanitario nazionale. Quest’ultimo, diviso solo su indici socio sanitari, non ha mai tenuto in debita considerazione (né lo tiene tuttora) la differenza di ricchezza esistente lungo lo Stivale. Per capirci: un calabrese riceve gli stessi soldi pro capite di un Veneto e di un Lombardo ma ha in tasca meno della metà dei mezzi economici coi quali integrare l’assistenza statale spesso carente. In questo contesto tanto controverso, sono anni che da Roma inviano, sul posto, commissari con le stellette militari sul bavero, zelanti prefetti, occhiuti contabili al posto di economisti e medici esperti in gestione sanitaria. Trattano i Calabresi, insomma, come fonte di un peccato originale più che vittime, essi stessi, di un’atavica tradizione di asfissia economica e sanitaria. Ecco che, in queste ore, apparso come d’incanto un ulteriore debito di 130 milioni di euro, il Governo ha deciso di rimuovere il commissario per la Sanità in carica, il generale dei carabinieri Saverio Cotticelli sostituendolo con una serie di nomi eccellenti (da Zuccatelli a Gaudio) che poi si sono tutti dimessi per motivi politici e/o personali. In questo frangente si è registrata anche l’indicazione di Gino Strada, il fondatore di Emergency, società non lucrativa che raggruppa medici e chirurghi volontari, presente in molti scenari di guerra tra i più tremendi al mondo. Un’idea, questa, che però perpetua l’errore di considerare Catanzaro la capitale di una nazione dilaniata dai conflitti neanche fosse l’Afghanistan! Una Calabria Saudita, insomma. Assurdo. In Calabria non servono ospedali da campo come quelli che Emergency, in maniera straordinaria e lodevole, allestisce con la sua rete di chirurghi, là dove divampano guerre e scontri. Nossignore. In Calabria non servono misure draconiane: servono interventi dello Stato volti a parificare “l’uguaglianza” del fondo sanitario ed un progetto straordinario di ammodernamento ed accorpamento razionale della rete ospedaliera. Soprattutto, serve una lex specialis affinché tutto questo sia realizzato in tempi brevi.

*già parlamentare