IL “CASO McKINSEY”

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Giancarlo Bedini 150x150 IL “CASO McKINSEY”  

–   di Giancarlo Bedini   –                                                      

La vicenda della consulenza affidata alla società McKinsey nell’ambito del processo di approntamento del Recovery Plan ha dato luogo a una serie di considerazioni inappropriate e ad altre più ragionevoli, sulle quali sarebbe bene applicarsi con raziocinio, separando nettamente le une dalle altre. Ci sono dunque tre tipi di “critiche”:

1) in primo luogo esiste quella che più che una critica, sia pur radicale, è una sentenza di condanna mossa da chi considera questo governo come quello dei banchieri e della “tecnocrazia internazionale”. Chi parte da questo presupposto non ha bisogno di riflettere nemmeno un po’: i simili collaborano tra loro e dunque la consulenza in questione non è altro che una forma in cui persino la redazione di un atto politico di programmazione viene data “in appalto” a privati, in una sorta di processo “a cascata”. Il pregiudizio supplisce così ad una discreta ignoranza di cosa sia un Piano strategico e di quali siano le condizioni minime perché esso esista realmente. Non un insieme di espressioni di volontà e neanche solo un elenco di obiettivi, ma un documento complesso che racchiude elaborazioni economico-sociali di carattere quantitativo, studi di fattibilità, valutazione degli impatti (ovvero le conseguenze possibili, anche inattese, delle azioni che si intraprendono) e così via. Per la sua redazione servano competenze diverse, di carattere anche specialistico.

È di tutta evidenza che a McKinsey è stato chiesto di dare un supporto di tipo tecnico per una scrittura del piano il più possibile corretta ed efficace sotto tali profili e che quindi non c’entrano nulla i contenuti dello stesso. Va detto anche che la sentenza ideologica di condanna si mescola qui con l’intenzione strumentale di opporre Conte a Draghi, senza considerare però che McKinsey lavora già da tempo con il Ministero dell’Economia e che ha contribuito addirittura alla stesura dei “decreti ristori”. Dunque questo tipo di “condanna” si basa su pregiudizi e fake news ed è fondata sulla non conoscenza di come funziona davvero una pubblica amministrazione; costituisce un “riflesso” del tutto atteso e non è seriamente da prendere in considerazione;

2) il secondo tipo di critica è, semplificando, quello che rinvia a Fabrizio Barca e alle sue recenti prese di posizione: la scelta della consulenza non è condivisibile perché esternalizza (continuando una prassi in vigore da troppo tempo) funzioni che dovrebbero restare interne ad una P.A. rinnovata nelle competenze e negli organici, l’unico soggetto capace potenzialmente di intercettare bisogni e realtà sociali e locali. Il consulente esterno, per Barca, troppo spesso introduce modelli astratti e tecnocratici che esercitano un’egemonia sulle politiche pubbliche e spesso creano anche danni. In linea di massima la posizione di Barca è corretta, anche se bisogna distinguere tra consulenze e consulenze e non sottovalutare la possibilità di guidare e “circoscrivere “il ruolo dell’incarico ad un privato. Peraltro nella fattispecie il problema è molto ben definito: si tratta di arrivare a stilare un Piano (di fatto a scriverlo “ex novo”) in poco più di un mese e con caratteristiche tecniche inderogabili.

Bisogna convivere con la contraddizione tra la rapidità richiesta nell’approntare il Piano e la storica impreparazione delle nostre amministrazioni pubbliche nel pianificare la propria azione sulla base di obiettivi prefissati e di precisi indicatori misurabili oltreché nell’adottare efficaci strumenti di monitoraggio e revisione in itinere. Consideriamo poi che il Piano stesso è chiamato a dare alla P.A. i mezzi e le competenze che ora mancano! Non è questa consulenza alla McKinsey il problema reale, oggi, sotto il profilo qui considerato;

3) l’ultimo tipo di critica riguarda la scelta dello specifico consulente, ovvero della McKinsey. Immagino che abbiano prevalso ragioni di continuità e legate ai tempi. La società era già “insediata” all’interno del Ministero in virtù di collaborazioni di tipo duraturo. Credo comunque che nella scelta di un collaboratore privato, oltre a questioni collegate alla capacità e al prezzo, la P.A. dovrebbe prendere in esame, a regime, anche quelle collegate alla responsabilità sociale e alla reputazione. E sotto questo profilo è corretto che qualsiasi collaborazione debba essere passata ad un vaglio attento e serio, ma questo è un tema che va ben oltre la singola polemica politica.