“LA TIGRE BIANCA”: UN FILM SENZA “ARTIGLI”

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di Mariantonietta Losanno 

Ramin Bahrani avrebbe potuto realizzare un film memorabile se solo si fosse concesso di analizzare più a fondo gli ambienti e i personaggi che racconta. “La Tigre Bianca” è una storia (apparentemente) di riscatto in un mondo in cui vige la divisione in caste. Come riuscire ad imporsi in una realtà del genere? Naturalmente, con ferocia, proprio come una tigre. O come la Tigre Bianca del Bengala, seconda per dimensioni solo alla Tigre Siberiana: un animale unico, che nasce una sola volta in una generazione, caratterizzato da un mantello bianco adornato da strisce nere, tenuto spesso in cattività. Balran è costretto ad “educarsi alla criminalità” per non soccombere. È un ragazzo umile, un “topo di campagna”, il “servo perfetto”. Un giorno però smette di adempiere ai suoi doveri con la stessa dedizione assoluta che aveva sempre impiegato e la rabbia diventa l’unico sentimento che riesce a provare. È da mettere in conto che, cercando di rompere le regole di una realtà (purtroppo) universale bisogna compiere un cambiamento estremo.

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“La Tigre Bianca” cambia registro più volte nel corso della narrazione: ci sono due importanti colpi di scena che cambiano le sorti della pellicola, creando proprio un “film doppio”. Balran lotta per la sopravvivenza e lotta con violenza, cinismo e crudeltà. Un Paese tanto affascinante quanto brutale come l’India lascia emergere la sua vera natura: la via dell’innocenza e della bontà non sembra più quella da percorrere. Un servitore che si ribella – sulla falsariga di “Parasite” –  e abbandona definitivamente la “faccia d’angelo” che lo ha contraddistinto da sempre. Basato sul best seller dello scrittore indiano Aravind Adiga, “La Tigre Bianca” segue l’ascesa di un giovane ragazzo indiano della “casta bassa”, che forse in cuor suo sapeva già di dover interpretare il ruolo di “tigre bianca” prima o poi nella vita. Una volta convinto a seguire questa strada, non ci saranno scrupoli di nessun genere – neanche morali – a fermarlo: Balran inizia a credere di poter diventare finalmente ricco e niente lo distoglie dal raggiungimento di questo obiettivo. E ne uscirà vincente, almeno in apparenza.

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Eppure, nel film è tutto indiano tranne il film stesso. “La Tigre Bianca” fa leva sui gangster, sui soldi, su situazioni viste e riviste, senza analizzare a fondo la realtà indiana. C’è un accennato riferimento a “Vita di pi” e a “The Millionaire” (di cui viene meno la componente favolistica), per l’idea di una crescita fisica e spirituale, ma “La Tigre Bianca” non convince a pieno. L’ingegno e l’astuzia vengono utilizzati solo per compiere una rivalsa illegale, non una maturazione. Il tema della “più grande democrazia del mondo”, allora, perde di significato. La pellicola di Ramin Bahrami rimane solo l’ennesimo atto violento senza coscienza in cui per emergere si può solo tirare fuori la parte più brutale di sé. Siamo sicuri, dunque, che un avanzamento di classe avvenga davvero? La clamorosa iniquità del sistema delle caste che assoggetta le persone in una condizione di schiavitù quasi bestiale, lo scarso valore attribuito alla vita umana, la corruzione della classe politica: il regista poteva scavare più a fondo, tracciando un ritratto della società indiana più efficace. La lotta di classe è una colonna portante del cinema contemporaneo, ne “La Tigre Bianca” – candidato agli Oscar per la miglior sceneggiatura non originale – si poteva aggiungere qualcosa di nuovo. La possibilità di redenzione è solo un’illusione.