OSCAR 2021, “SOUND OF METAL”: LA FORZA DI TORNARE A SENTIRE SE STESSI

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di Mariantonietta Losanno 

Il silenzio sa comunicare. Con sei candidature e due Premi Oscar vinti, “Sound of Metal” è un viaggio intimo nella solitudine di un uomo che perde progressivamente l’udito. Ruben (Riz Ahmed) – ex tossicodipendente pulito da quattro anni – forma con la fidanzata Lou un duo metal “Blackgammon”: i due vivono insieme e sono sempre in viaggio per le strade d’America, in tour passando da un club all’altro. Ruben, improvvisamente, si accorge di percepire uno strano ronzio nelle orecchie e, in poco tempo, diventa completamente sordo. All’improvviso il silenzio. Nessun suono. Nulla. A detta di dottori e specialisti l’udito è irrecuperabile, ma Ruben è un batterista: per lui è come una sentenza di morte. Il non dover più usare la voce, il linguaggio: resta solo il silenzio. Ruben cerca disperatamente aiuto: nei primi piani ravvicinati – enfatizzati dal silenzio – si colgono la paura della solitudine, la condanna a un mondo in cui è impossibile integrarsi. Come imparare a conviverci? Considerando il silenzio come una realtà materiale, come il rumore o il suono: ritenendolo, quindi, una forma alternativa di musica. Sopraffatto da ansia e depressione, si rifugia in una casa per sordomuti gestita da un veterano del Vietnam anche lui sordo. Relazionandosi con altre persone che vivono la sua stessa situazione, Ruben arriva ad accettare la sordità, ma non perde la speranza di tornare a sentire grazie a un impianto artificiale per potersi poi riunire con Lou, che nel frattempo si è trasferita in Francia dal padre. 

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Il regista lavora per costante sottrazione. Non c’è nulla di ostentato: la recitazione non è mai caricata, né c’è l’ombra di sviolinate strappalacrime. Persino nei momenti più delicati (come la perdita dell’udito dopo il concerto o l’incontro con Lou a Parigi) Marder si mantiene su un equilibrio e su un pudore che umanizzano la vicenda di Ruben senza bisogno di calcare troppo la mano. “Sound of Metal” dà spazio alle immagini e ai gesti: tutto – o quasi tutto – viene comunicato in modi alternativi, mostrando un mondo poco approfondito. Il dialogo si perde, lasciando spazio ad una nuova forma di comunicazione: “Sound of Metal” si impone come film tutto incentrato sulla percezione sonora e sensoriale. Un’esperienza di visione e di ascolto, soprattutto dei silenzi e dei rumori, che riproducono lo smarrimento di un uomo che non riesce più a sentire il mondo che lo circonda e neanche se stesso. 

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Il silenzio sa comunicare. “Sound of Metal” (“silenziosamente” presente su Amazon Prime da diversi mesi, ma solo in occasione delle sei candidature agli Oscar balzato tra le pellicole più viste) è un’esperienza cinematografica – e di vita – ardua e, soprattutto, arricchente. L’immersione nel “mare del silenzio”, osservata da un punto di vista decisamente diverso, poteva essere rischiosa; il risultato, però, è un’opera profonda e delicata, recitata in silenzio. Riz Ahmed mostra il senso di prigionia derivato da una condizione improvvisa e destabilizzante, recita soprattutto con lo sguardo mostrando la paura e la necessità di trovare una soluzione al suo problema per potersi ricongiungere con Lou, con cui ha un legame molto morboso. Nemmeno per un secondo si cade nel pietismo. Il regista indaga intimamente una condizione fisica con sincerità, raccontando un processo di scoperta: quello di Ruben è un vero e proprio percorso di formazione, violento e drastico, che lo porta ad una nuova consapevolezza di sé. E se “Sound of Metal” volesse anche essere un’opera sul cambiamento, nonostante scaturisca da una deturpazione fisica? Lo spettatore si gode “the sound of silence” (il titolo del film, ricorda, per assonanza la canzone di Simon & Garfunkel): il regista regala un’”occasione” per annegare in un assordante silenzio e cercare, poi, di venire a galla. Come se, trascorse le due ore, ci si sentisse pronti a “risintonizzarsi” con la propria (nuova) vita. “Sound of Metal” non è una storia di rassegnazione e di sogni svaniti: è una “sfida”sull’attraversamento del dolore per raggiungere l’accettazione. Marder mette in scena la sua idea di solitudine (come aveva fatto Antonioni nella sua “trilogia dell’”incomunicabilità”): è questo il fulcro della pellicola.