“LA PAZZA GIOIA”: L’ELOGIO ALLA FOLLIA

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di Mariantonietta Losanno 

Due donne, all’apparenza diversissime, eppure non così distanti. Anzi, sempre più vicine. La prima, Beatrice, è aristocratica, esuberante, logorroica, sicura di sé e del suo vissuto; l’altra, Donatella, più giovane ma sfiorita: malinconica, silenziosa, introversa e che custodisce un doloroso segreto. Le accomuna un luogo: Villa Biondi, casa di cura psichiatrica. È qui che si incontrano e fanno amicizia, nonostante l’estrema difficoltà dei loro caratteri. Ed è insieme che decidono di fuggire e di darsi “alla pazza gioia”, alla ricerca di un po’ di felicità nel mondo dei “sani”. 

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Virzì si (ri)conferma un autore moderno e partecipativo che, capace di raccontare con estrema sensibilità le contraddizioni e le paure dell’animo umano. “La pazza gioia” si sofferma sull’importanza delle relazioni e sul loro potere terapeutico: è proprio l’amicizia a salvare Beatrice e Donatella, a concedere loro una possibilità di riscatto, a restituire loro quel pizzico di felicità a cui tanto si aspira. È anche e soprattutto la paura a legarle: tutto quello che esiste al di fuori della comunità le spaventa, ma scappano lo stesso spinte da obiettivi diversi che sono intenzionate a perseguire insieme. Donatella vuole rivedere suo figlio Elia, Beatrice invece vuole fare i conti con la propria realtà e comprendere la natura dei legami che facevano parte della sua vita. Il loro legame le porta ad essere più capaci di aiutare l’altra che di aiutare se stesse: riescono a diventare scaltre e coraggiose se si tratta di lottare in nome della loro amicizia. In fondo, la casa psichiatrica dove sono recluse non è poi così distante dal manicomio che è la nostra realtà, che ha ben poco di equilibrato, e dove ormai tutti sono portatori di qualche patologia. L’empatia che si manifesta tra le due donne è l’antidoto alla perdizione, alla depressione, alla morte. “La pazza gioia” ci ricorda che sentirsi “qualcosa” per qualcuno può fare la differenza più di qualsiasi casa di cura o medicina. 

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Virzì, oltre a rappresentare il valore di un legame forte, vero e tangibile, suggerisce una riflessione sul concetto di “pazzia”. In effetti, basta così poco per definire la follia: un passo falso, un’azione anomala, un comportamento strano. E a partire da quel comportamento che si etichetta – come sostiene la teoria dell’etichettamento del sociologo della devianza Becker – poi una persona definendola “folle” e “fuori dagli schermi”. E si riassume tutto in un semplice – e povera – frase: “è pazza”. La verità è che c’è tanto altro; ci sono sentimenti che non riescono a manifestarsi, molte volte per paura; ci sono emozioni, stati d’animo, c’è tutta una vita dietro a questa scarna definizione. Una forma di divergenza non può – e non deve – ridursi ad una definizione così banale e semplicistica. Virzì mette in scena due moderne Thelma e Louise che vanno in cerca della felicità “nei posti belli, nelle tovaglie di fiandra, nei vini buoni, nelle persone gentili”, e attraverso il loro legame – mantenendosi in equilibrio tra la commedia dirompente e il dramma viscerale – riesce ad addentrarsi anche in un tema così scottante come quello dei disturbi mentali. Il regista segue – in parte – l’idea che aveva ispirato Xavier Dolan in “Mommy” e cioè che “non basta l’amore per salvare qualcuno”, ma nonostante questo non vuol dire che si debba smettere di amare. Le due protagoniste sono affette da disturbi psichiatrici molto invalidanti: Beatrice ha il disturbo bipolare e degli atteggiamenti maniacali; Donatella soffre di depressione e presenta tratti borderline. In un caso, la malattia viene descritta come biologica (Beatrice sperpera il patrimonio della sua famiglia e si lega ad un truffatore); nell’altro come conseguenza di un’infanzia difficile (Donatella ha avuto una madre inaffidabile e un padre assente). “La pazza gioia”, quindi, evitando il pietismo, sceglie una rappresentazione né troppo idilliaca né troppo superficiale o stereotipata: il risultato è una pellicola estremamente divertente ed estremamente tragica. Se è vero che vengono rappresentati momenti cupi e violenti, sembra di non aver mai visto, però, tanta esaltazione, tanta ebbrezza e tanta ilarità. 

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In fondo, vorremmo tutti andare “alla ricerca della felicità” con una giusta dose di follia. Quella “pazza gioia” è una “pazza idea” che però, inconsciamente, vorremmo rincorrere tutti noi. E vorremmo anche sovvertire l’ordine costituito, per pochi istanti, ma per poi farvi diligentemente ritorno. Così, agli occhi di quella società che ci incolpa di essere “nati tristi”, otterremmo una rivincita. La tristezza di Beatrice e Donatella non le rende simili, ma le avvicina; ma, soprattutto, non le rende mai banalmente delle vittime. Quella speranza di vivere un momento sospeso, “senza fine” come canta Gino Paoli, ci infonde quella speranza di poterci sentire finalmente felici. Resta solo da chiederci se si può trovare la felicità attraverso l’inquietudine. E l’inquietudine, come insegna Pessoa, è l’intervallo tra ciò che siamo e ciò che non siamo.