“SCARIO SHORT FILM FESTIVAL”: UNA NUOVA “MISURA DEL TEMPO”

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di Mariantonietta Losanno 

Il 18 e 19 agosto il comune di San Giovanni a Piro (frazione di Scario) ha ospitato la terza edizione dello Scario Short Film Festival: due serate di cinema internazionale – con ospiti internazionali – in uno scenario suggestivo che ha permesso di creare un evento stimolato e stimolante. Un’esperienza di arte e cultura prodotta e sostenuta da menti giovani e brillanti con determinazione, impegno e desiderio di far parlare il cinema e i sentimenti. Personalità come Marco Crispano, artista, pittore contemporaneo e co-fondatore (insieme ad Andrea Gatopoulos) de “Il Varco”, casa di produzione cinematografica e Livia Galluzzi, presidente dell’Associazione Culturale “AEDON”, che promuove attività artistiche e musicali nel territorio di Roma e provincia, insieme produttori del Festival; Elio Di Pace, regista e direttore artistico del Festival, dimostrano come sia possibile dare voce ad un’idea e renderla concreta, permettendo all’arte di trovare il suo luogo per esprimersi. L’amministrazione comunale e il pubblico di San Giovanni a Piro hanno sostenuto il progetto mostrando partecipazione e sviluppando un dibattito acuto ed intelligente, che ha fornito differenti spunti di riflessione.

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La progettazione di un cortometraggio comporta una necessaria – ma funzionale – rivalutazione del tempo. Comunicare un’idea in pochi minuti vuol dire sottrarre dettagli fondamentali alla riuscita del corto o la possibilità di sviluppare una storia in tempi brevi “concentra” le emozioni? Per un autore esprimersi attraverso un corto significa riuscire a fare “ordine” in un racconto senza svilirlo o svilirsi; significa mettere in atto un’incredibile prova creativa. Alternare, poi, la visione di più corti permette di sviluppare non solo tante storie, ma anche tante sensibilità: si scatena un dibattito continuo che spinge verso l’accettazione di qualcosa di nuovo e pieno di possibilità. Ogni sensazione che ne scaturisce cambia in relazione in base alla propria predisposizione, ai propri valori e a tutte le circostanze che – in modo consapevole e inconsapevole – influenzano la visione. Parole, sogni, arte: tutto ciò che aiuta l’anima a raccontarsi. Un concentrato di emozioni in pochi minuti, come un abbraccio che riduce – e ricuce – il tempo. 

Il “rischio” che si corre è che un cortometraggio di dieci/quindici minuti possa apparire persino più lungo del suo tempo di esecuzione: è necessario che il ritmo si equilibri con l’“economia” della scena e la minimizzazione dei dialoghi. In un corto, l’idea deve essere così definita da riuscire ad esprimersi persino sottraendo: si tratta, quindi, di un’occasione per spingere i confini di ciò che la narrazione cinematografica può fare coinvolgendo il pubblico emotivamente. Vuol dire, cioè, trasmettere di più ma in meno tempo. I personaggi “brevi” devono essere monodimensionali, ma non stereotipati: questo non significa assenza ma limitazione (e funzionalità) di caratterizzazione. Il cinema del reale, l’animazione e la comicità (con i suoi personaggi – in alcuni casi – “privi” di psicologie) trovano una dimensione efficace nella brevità. È possibile indagare i personaggi nonostante non si abbia modo – e, appunto, tempo – per sviluppare sottotrame: alcune scelte narrative possono apparire anche insolite perché orientate a sorprendere e a scegliere una soluzione che ribalti le aspettative. 

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I cortometraggi in concorso, selezionati dalle quattro edizioni stagionali, sono otto. La giuria critica popolare (formata da Felice Grieco, Alessandro Salvucci, Chiara Grieco e Alessandra Grieco) che ha valutato le opere, ha premiato “Faleminderit”, di Nicolas Neuhold. 

1: “It’s So Charming” di Svend Colding. 

Silvia, una ragazza incinta, in occasione dell’anniversario di matrimonio incontra per la prima volta i parenti del suo fidanzato Christian. I due avevano progettato di approfittare dell’evento per annunciare la gravidanza, ma non riescono a trovare il momento adatto, soprattutto a causa del rapporto padre-figlio. Un’ambientazione semplice ed essenziale funge da cornice ad una storia molto più complessa di quello che può apparire: il fulcro non è il rapporto difficile tra Christian e suo padre, ma la difficoltà di Silvia di integrarsi. Lei rappresenta l’elemento di “fastidio”, il suo atteggiamento è diverso da quello che gli altri si aspettano e, quindi, crea un problema. La storia coinvolge non solo perché viene trattato un tema universale in cui ci si può facilmente immedesimare, ma perché viene analizzata l’“atipicità”. Christian sembra essere succube delle scelte altrui, sembra preoccuparsi eccessivamente delle opinioni del padre al punto da provare imbarazzo e inadeguatezza, non riuscendo più a guardare altro che se stesso: la sua difficoltà a relazionarsi alla famiglia lo induce anche ad ignorare i sentimenti della sua compagna. I concetti fondamentali sono l’emarginazione e l’accettazione di sé: possiamo anche decidere di non essere il riflesso dei nostri genitori nel momento in cui i loro comportamenti sembrano essere così distanti dai nostri valori. Bisogna maturare uno sguardo lucido e consapevole, capace di imporsi e di sapersi distinguere, e anche difendere.

2: “A float” di Ève-Chems de Brouwer.

Garance decide di trascorrere le vacanze estive insieme a sua sorella e ai suoi due figli nel Meditteraneo. Lì incontra un uomo che conosceva una volta. Il tema del corto è “sentire il proprio corpo”, letteralmente. Le inquadrature lente si soffermano sui dettagli – spesso impercettibili – di una giovane donna che ha bisogno di riappropriarsi di se stessa. Come riuscire a vivere in un corpo che non sembra appartenerci? Come riuscire ad amarlo, ad essere “gentili”, a continuare a volergli bene? Sta tutto nel prendere consapevolezza che bisogna prendersi cura anche dei dolori e delle insicurezze. Imparare a volersi bene, accettando anche che la sofferenza rimanga sempre viva a ricordare chi siamo e chi vogliamo essere. Non per gli altri: la relazione più importante è quella con se stessi ed è anche la base sincera per riuscire ad averne altre sane, equilibrate, profonde e sempre in evoluzione. Garance evita il contatto con gli altri, si sente libera solo stando da sola, nascondendosi per paura o imbarazzo. Riesce a “sentirsi” solo di notte, in mare, dove nessuno può vederla o toccarla. Arriva un momento in cui, però, bisogna liberarsi ed aprirsi, accettando anche il rischio di un rifiuto. Garance si “confessa”, riprendendo il centro di se stessa. Si ferma e si guarda intorno, prendendo coscienza di doversi amare – e perdonare qualora non fosse possibile – riprendendo a camminare al proprio ritmo: “tenendosi stretta”. Il finale è la massima espressione di libertà. 

3: “I’m not telling you anything, just sayin”, di Sanja Milardović.

Zrinka arriva nella sua città natale per alcuni giorni per fare location scouting (fase di ricerca e selezione della location per delle foto) e si trattiene a casa di sua madre Tanja. Tra le due il rapporto è teso: Zrinka è molto aggressiva, Tanja più fragile, ma entrambe sembrano provare una forte rabbia repressa. Ci sono poi i sensi di colpa a cui seguono delle “sedute di autoanalisi” per capire in che modo si è procurato del dolore all’altro e in che modo è possibile rimediare. C’è sempre la possibilità di riconciliarsi, di abbracciarsi e rassicurarsi. Perché sentirsi dire che “andrà tutto bene” tra le braccia della propria madre avrà sempre il potere di calmare qualsiasi sofferenza interiore. 

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4: “Lost  Rabbit” di Bertrand Lissoir.

Jef è profondamente depresso dopo la morte di sua moglie. Un fine settimana la nipotina gli affida il suo coniglietto Jacques. 

Esiste un grado di dolore che, una volta superato, porta a negare gli affetti. Non è solo una difesa, quanto piuttosto una “regressione”: la sofferenza è così forte che ci si “scorda” come amare. A Jef viene affidato un compito piuttosto semplice: badare ad un coniglietto mentre la nipote è via. Eppure, anche se per breve tempo, si ritrova costretto a “scontrarsi” con dei sentimenti: emerge il senso di protezione – e di responsabilità – nei confronti di un animaletto a cui sua nipote tiene molto, la paura di deluderla nel momento in cui si dimostrasse incapace di tenere fede alla parola data; il rifiuto di lasciarsi intenerire da un essere indifeso e di avvicinarsi ancora ad una qualsiasi forma di affetto. Perché prendersi cura degli altri significa anche prendersi cura di sé e Jef non sente di esserne all’altezza; il dolore l’ha sopraffatto al tal punto da sentirsi inadeguato anche nel fare una carezza o nell’avvicinarsi ad un’altra forma vivente. Imparando a perdonare e a perdonarsi, però, si trova anche la forza per imparare nuovamente a voler bene: quelle carezze che sembravano così goffe e piene di paura, diventano allora un bisogno legittimo di lasciarsi andare nuovamente all’amore e ricostruirsi. 

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5: “Stephanie” di Leonardo Van Dijl.

Una ginnasta di undici anni ha appena vinto il suo primo premio internazionale. La pressione e l’attenzione rivolta su di lei sono, però, così forti da impedirle di godersi il momento con la spensieratezza della sua età. Il corto rimanda “troppo” a “Il cigno nero” (2010) di Darren Aronofsky e a “Whiplash” (2014) di Damien Chazelle e “troppo poco” a “Little Miss Susnhine” (2006) di Jonathan Dayton e Valerie Faris. L’idea è che il massimo talento non si possa esprimere senza determinazione e abnegazione totali: premia il narcisismo compiaciuto e l’ossessione di identificarsi con un modello vincente. La ricerca ossessiva di perfezione può portare, però, anche al delirio (come, appunto, quello rappresentato da Natalie Portman nell’opera di Aronofsky): sarebbe più giusto, allora, identificarsi con il bisogno di non essere etichettati come “strani” perché non in linea con lo standard socialmente etichettato; sarebbe più corretto concedersi la possibilità di accettarsi senza doversi punire per non essere perfetti. Si dovrebbe celebrare l’eccentricità e non il narcisismo: “Riappropriatevi della vostra vita e siate vincenti”, recita una delle battute in apertura in “Little Miss Sunshine”.

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6: “Faleminderit” di Nicolas Neuhold.

Il corto è basato su una storia realmente accaduta. Nel 1921, il cartografo lussemburghese Charles Schaeffer viene inviato in Albania (da poco indipendente) per studiare la popolazione e la topografia. I confini del paese non sono ancora definiti: “Faleminderit” si presenta come un film storico che affronta il periodo della formazione dell’Europa. È un documento storico e politico, essenziale per ricostruire le tappe di un momento cruciale come quello dell’indipendenza dell’Albania, poi occupata nuovamente durante la Seconda Guerra Mondiale. 

7: “The Best Orchestra in The World”, di Henning Blackhaus.

Il protagonista di questo corto è il calzino Ingbert che si candida per una posizione da contrabbassista nell’Orchestra Sinfonica di Vienna. Il provino si svolge dietro una tenda (perché “uomo o donna che sia” è la performance a dover convincere): restano tutti incantati dal suono morbido ed espressivo, fino a quando, però, l’identità non viene svelata. 

La fantasia supera la realtà: il corto non vuole soffermarsi (solo) a riflettere sull’assurdità delle discriminazioni e sull’ipocrisia che permea la società, né sulla banale meritocrazia. C’è un significato molto più profondo: il calzino permette di non esasperare ulteriormente le tematiche degli orientamenti sessuali e delle identità di genere. “The Best Orchestra in The World” è una riflessione illuminata e illuminante sulle disparità sociali: attraverso un’ironia intelligente riesce a mettere in luce quanto sia difficile – se non impossibile – liberarsi da “schemi di pensiero rigidi” che non consentono l’accesso a pari opportunità. Il fatto che si utilizzi un calzino per esprimere un concetto così attuale non sposta l’attenzione dalla complessità del tema; lo dimostra “Dov’è il mio corpo” (2019), il film d’animazione presentato al Festival di Cannes e distribuito sulla piattaforma Netflix, in cui una mano umana, recisa, acquista vita propria, fugge da un istituto di Medicina Legale e parte alla ricerca del proprio corpo. Che si tratti di una mano, di un calzino, di una forchetta o di un cucchiaio, l’importanza dei significati non subisce mancanza di credibilità o di linearità. 

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8: “Snow Shelter” di Robertas Nevecka.

Durante l’inverno in una città devastata dalla guerra un uomo deve fare i conti con gli sfollati che si sono insediati nel suo appartamento. I personaggi non riescono ad “armonizzare” con i luoghi in cui sono costretti a vivere; si cerca, piuttosto, di sopravvivere. L’atmosfera è cupa e claustrofobica e l’omissione (intenzionale) dei dettagli nei disegni concorre a creare un’atmosfera minimalista, che vive di “sottrazioni”, anche grazie alla suggestiva resa degli effetti di luce. La società descritta, nonostante sia immaginaria, viene analizzata con un agghiacciante realismo: la desolazione di una città desertificata, senza più regole di convivenza sociale, è fin troppo legata alla realtà. La preoccupazione è che potrebbe occupare, nel prossimo futuro, una reale concretezza. Il regista, attraverso le caratteristiche dei volti, la persistenza di alcuni fenomeni (come le fiamme che incendiano il caminetto), gli elementi dai toni scuri e contrastanti, disegna i confini di una sopraffazione senza alcuna via d’uscita. È il senso di identità il fulcro di quest’opera che si muove in equilibrio tra l’immaginazione e l’iperreale. 

Il regista di “It’s So Charming”, Svend Colding, è stato ospite delle due serate di cinema, ed è stato possibile porgli alcune domande sul suo corto. 

“Il tema del suo corto investe l’accettazione dell’altro. Un argomento molto attuale. Cosa l’ha portata ad individuare questo tema?”

Volevo puntare l’attenzione su un personaggio trattato male ingiustamente dagli altri e che deve necessariamente trovare il modo di ribellarsi, soprattutto concentrandomi su quanto (spesso) le ingiustizie altrui non vengano comprese ma ignorate dagli altri.

“Quanto influenzano i pregiudizi nell’accettazione dell’altro?”

Più che un pregiudizio, volevo esternare un’ipocrisia irrazionale e profondamente radicata. 

“Una società come gestisce le diversità? Siamo schiavi di una cultura che ci condiziona?”

Penso che le relazioni umane siano influenzate dalla cultura e, in alcune famiglie, un cultura è così assimilata da risultare impenetrabile. 

“A proposito di condizionamenti, quali sono i suoi riferimenti cinematografici?”

Mi piacciono molto Adam McKay e Thomas Vinterberg per gli argomenti trattati attraverso la loro energia e la loro cifra stilistica. 

“Il confronto/scontro con la famiglia influenza il rapporto di coppia?”

Assolutamente sì. Ma, paradossalmente, Silvia e il suo compagno finiscono per conoscerci meglio e escono dalla loro crisi con una maggiore consapevolezza.