“VISAGES, VILLAGES”: UNA MALINCONIA PIENA DI VITA CHE CREA UNA PERSONALE FORMA DI STUPORE

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di Mariantonietta Losanno 

Un incontro magico, quello tra Agnès Varda e JR: lei voce unica nel panorama Nouvelle Vague, lui artista che unisce fotografia e street art. “Visages, villages” – che suona come un gioco di parole, come quelli dei film di Godard “Une femme est une femme”, “Vivre sa vie” – è un “road movie” atipico, un viaggio malinconico ma pieno di vita lungo la Francia di provincia, con lo scopo di animare, abitare (o riabitare) posti in cui la vita è sparita anche solo per un giorno. Due personalità, ma soprattutto due sguardi sul mondo (perché dipende sempre da come si guardano le cose, “a distanza” o “dall’alto”): ne viene fuori un film – inchiesta intimo e sociale, in cui si ragiona sulla vita, sull’amicizia, sulla morte e sul cinema, per poi fare dono alla popolazione di tutte queste riflessioni attraverso dei murales fotografici (marchio di fabbrica dell’artista JR).

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I due si confrontano continuamente su come procedere nel film, su dove andare, su quali luoghi e volti focalizzarsi: le loro due prospettive sul mondo e sul cinema (perché è sempre un discorso meta – cinematografico) si scontrano per poi incastrarsi alla perfezione. Per Agnès Varda ci sono tre parole importanti “ispirazione, creazione e condivisione”: la sua lunghissima carriera, cominciata alla fine degli anni Cinquanta, esprime la sua capacità di avvicinarsi così tanto alla macchina da presa da riuscire a toccare personaggi, storie e paesaggi riuscendo a mantenere rigore e a sviluppare le sue riflessioni senza limitare l’improvvisazione. Il suo è uno stile “anarchico” (libero, poetico, all’occorrenza anche femminista e sociale) impossibile da ricondurre a un genere preciso, perché alterna linguaggi e tecniche differenti, sperimenta: Varda analizza la società e le sue contraddizioni, non cercando necessariamente consensi e non seguendo pedissequamente le mode. Resta vitale ed ironica persino parlando di morte, sabotando anche le emozioni; ne è un esempio “Il verde prato dell’amore”, che esprime un’idea di “felicità non allegra”: in una realtà contraddistinta da colori allegri, prati fioriti, sorrisi e amore, c’è tutto tranne che felicità. Agnès Varda colpisce con “delicatezza”, perché mantiene colori vivaci, paesaggi meravigliosi, primi piani estasiati; ma “distrugge”, mostrando come pensiero critico ed emozione non siano necessariamente esperienze antitetiche.

%name “VISAGES, VILLAGES”: UNA MALINCONIA PIENA DI VITA CHE CREA UNA PERSONALE FORMA DI STUPORESe la regista della Nouvelle Vague si mette in discussione esponendo la propria poetica in modo creativo, JR ha un’unica e grande ambizione: fare in modo che l’arte diventi lo strumento per cambiare il mondo. Per appagare questo desiderio realizza scatti spiazzanti e provocatori di persone comuni, pensati per scuotere le coscienze: unisce, quindi, fotografia e arte urbana, rendendo l’arte il mezzo per portare la “bellezza” (intesa non in una mera accezione estetica) nel mondo. L’intento è quello di permettere alle persone di vivere un’esperienza; ed è stato questo che l’ha spinto a trasformare – e “squarciare” – Palazzo Strozzi a Firenze proprio nell’epoca del Covid-19, per dare un segnale simbolico e riflettere sulle difficoltà di accesso alla cultura in questo particolare periodo storico. I suoi “collage giganteschi”, lontani dai musei di arte contemporanea, sono accessibili a tutti sia nel senso che possono essere visti in qualsiasi condizione, sia perché non c’è un unico modo di interpretarli: ognuno può avere la propria visione di un’immagine, poi il contributo dello spettatore scorre via e resta solo la foto con il suo mistero. 

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“Visages, villages” esprime la libertà di due artisti di immaginare e di domandare alle persone di poter esprimere la loro immaginazione sul loro territorio. Agnès Varda e JR elaborano una personale forma di stupore: non si ergono a detentori di verità, ma guidano il pubblico in un processo di scoperta e riscoperta. A bordo del loro camper/macchina fotografica vanno alla ricerca di loro stessi e del mondo, a volte “continuando così, senza un piano preciso né un itinerario”, altre volte seguendo un percorso definito: intervistano operai e contadini, si scontrano con le contraddizioni quotidiane del progresso tecnologico, fotografano persone incontrate per strada e cercano di comprendere le loro reazioni nel vedersi poi esposti in formato gigante su muri, palazzi, cisterne, edifici, container. Ascoltano e osservano per poi interrogarsi su quanto realmente si possiede nella vita: “Visages, villages” vuole capire dove va la vita standoci “dentro”. E cosa può voler dire, per le persone comuni, vedere la loro gigantografia nei luoghi dove vivono da sempre? Quando JR e Agnès lo domandano alle mogli degli scaricatori di porto, dopo averle fotografate, apposte sui container e fatte posizionare “all’interno del loro cuore”, ottengono tre differenti punti di vista: una sente una sensazione di libertà, un’altra non si sente al sicuro e l’ultima sente di dominare tutto. È questo il potere dell’arte e dell’immaginazione. Anche Agnès stessa viene fotografata da JR per poi essere posizionata su un treno che “andrà in posti in cui lei non andrà mai”: l’arte, allora, combatte anche il tempo, le malattie e la sofferenza. 

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Due menti e “un unico cuore” hanno realizzato un’opera fuori dagli schemi, basata su una serie di incontri: si incontrano generazioni, persone, prospettive, sentimenti. Agnès e JR si concedono il lusso di emozionarsi ed emozionare, di correre in un museo come in “The Dreamers”, di scontrarsi per poi ritrovarsi, di dare poesia alle piccole cose per farle diventare “enormi”. In “Visages, villages” lo sguardo è tutto, ma ancora di più, gli occhi: ci sono quelli di Agnès stanchi e provati dalla sua malattia, ci sono quelli delle persone del posto frastornati dalla potenza dell’arte, ci sono quelli di JR coperti dai suoi occhiali da sole, ci sono quelli di Buñuel e della sua opera “Un chien andalou”, quelli di Godard e di tutta la sua filmografia. E poi ci sono quelli dello spettatore, che si muovono tra le persone curiosi di conoscere le loro storie (come quella di un’allevatrice che non vuole tagliare le corna alle sue capre per non fare loro una violenza, o quella dei minatori che non vogliono abbandonare le loro case perché troppo piene di ricordi): ci si ritrova poi, alla fine del viaggio, in pace con il mondo, contagiati da quella “malinconia piena di vita” che muove ogni cosa. Il cinema si fonde con la vita o sono, alla fine, un’unica cosa?