“MONDOCANE”: L’“EDUCAZIONE SIBERIANA” DI ALESSANDRO CELLI

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di Mariantonietta Losanno

Danni ambientali e distopia: l’esordio alla regia di Alessandro Celli si presenta come un racconto di formazione al crimine – sulla falsa riga di opere come “Educazione siberiana” di Salvatores o “La terra dell’abbastanza” dei fratelli D’Innocenzo – e un film di “rottura”. Prodotto da Matteo Rovere e presentato alla 78esima Mostra Internazionale d’Arte cinematografica di Venezia nella sezione Settimana Internazionale della Critica, “Mondocane” è ambientato in una Taranto distopica – anche se non così lontana dalla realtà – e post apocalittica. Pietro e Christian, sono i “figli dell’abbandono” (una versione più piccola di Manolo e Mirko dei D’Innocenzo), due orfani cresciuti insieme come fratelli, che si muovono in un mondo alla deriva: il loro sogno è entrare nella banda criminale delle “Formiche”, guidata da Testacalda. Una volta ammessi nel gruppo, però, vengono messi alla prova. 

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Quel culto della violenza e della forza che più volte ha ispirato registi e autori, per Alessandro Celli è l’occasione per far incontrare il genere distopico e la denuncia ambientale. In “Mondocane” il disordine regna sovrano: Taranto funge da protagonista in una dimensione che non nega mai la possibilità di un dialogo con il reale. Seppure in un contesto distopico, è una città in un futuro relativamente vicino: Taranto – con le sue atmosfere torbide – soffre, da tempo lacerata da anni di “battaglie”. C’è rassegnazione, disincanto. Taranto parla, ma ormai la sua voce è diventata rauca a causa del tempo e delle malattie; appare rassegnata, come se non avesse più voglia di lottare contro un nemico imbattibile come l’ILVA. La sofferenza, nonostante ci troviamo in una “realtà immaginaria del futuro”, in “Mondocane” si avverte in modo tangibile. C’è Taranto, o quello che ne resta? Pietro e Christian sopravvivono, provando a seguire le prescrizioni della violenza per sentirsi parte di un gruppo; la loro è una vera e propria “formazione criminale” e Testacalda – in un’interpretazione molto “fisica” – è il loro “educatore”. 

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“Mondocane” porta alla ribalta una ferita per l’Italia in un modo nuovo: sarebbe potuto essere un film politico, invece, sorprendentemente, si presenta come una fiaba. E, proprio perché si presenta come una fiaba, si concede il lusso di estremizzare su qualcosa che è di per sé è già grave e reale: la rassegnazione di una città che piange le sue vittime. “Mondocane” è un grido di disperazione contro lo scorrere del tempo e contro quelle situazioni irreversibili che non consentono una crescita, ma solo un’identificazione con la criminalità. Non ci sono leggi in questo universo anarchico: ci sono solo i fumi dell’acciaieria, gli edifici dismessi, le armi e la desolazione. Non tutti gli archi narrativi vengono chiariti nel film: “Mondocane” sembra la bozza di un progetto molto più grande che non trova compimento. Tra inseguimenti, agguati, colpi di scena più o meno prevedibili, i confini della post-Taranto non appaiono sempre chiarissimi. La riflessione sul senso di appartenenza ad una comunità risualta immediata: Taranto e i suoi “figli” hanno perso speranza e prospettive, e si muovono tra le rovine, sfruttando la possibilità di iniziare al crimine i più deboli. È giusto che se ne parli con la potenza dell’allegoria, lavorando sull’aspetto distopico per aprire un dibattito sulla situazione attuale, ma potrebbe essere che il “mafia movie” risenta di troppi modelli e, quindi, sembri – anch’esso – rassegnato?