IL CORPO DELLO STATO

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–   di Vincenzo D’Anna*   –       

Non erano bastate, negli anni Novanta del secolo scorso, ben due archiviazioni per confutare l’ipotesi che alcuni pezzi delle istituzioni, avessero trattato con la mafia di Totò Riina. Agli inizi del terzo millennio alcuni pubblici ministero di Palermo, diventati in seguito famosi e finanche protagonisti della vita politica nazionale, ricevettero le confessioni di Massimo Ciancimino, figlio di Vito, ex sindaco di Palermo, condannato per vari reati e concorso esterno in associazione mafiosa. Anch’egli inquisito per vari reati, Massimo Ciancimino aveva deciso di pentirsi rivelando ad alcuni pm l’esistenza di un documento sottoscritto da alcuni rappresentanti dello Stato, il “papello “, con il quale, si era convenuta una tregua ed altri benefici nei confronti della mafia corleonese. A detta del pentito alcuni alti vertici politici, ministri e parlamentari, avevano attivato un canale di comunicazione con Riina ed i suoi stretti collaboratori per trovare un punto d’intesa e far cessare la stagione degli omicidi eccellenti in Sicilia e degli attentati dinamitardi che terrorizzavano l’Italia. L’ipotesi fantasiosa quanto priva di concreti indizi, fu cavalcata sia dai pubblici ministeri che dai partiti di sinistra che avevano elevato quei magistrati al rango di eroi immacolati e coraggiosi in grado di disvelare, finalmente, gli intrecci tra il mondo politico e la mafia. Indossata l’aureola dei vendicatori di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, costoro non diedero tregua agli indiziati, tutti di alto rango e notorietà. Più famosi erano gli inquisiti e più elevato il grado ricoperto, più grandi e luminosi si sarebbero rivelati le sorti degli inquirenti. Uno di questi Antonio Ingroia in quegli anni pensò addirittura di fondare un partito politico “rivoluzionario” che, suo malgrado risultò essere agli occhi degli elettori una brutta copia di quanto già fatto da Antonio Di Pietro ed in contrasto con quella sinistra di governo che aveva allevato nel suo seno una folta schiera di togati parlamentari. Il risultato fu quello di una debacle elettorale, nel mentre altri componenti del pool di Palermo scalavano i gradini di una carriera che li avrebbero portati ai vertici di alcune procure nazionali. Per gli inquisiti invece il calvario fu tremendo da Calogero Mannino, ex ministro, assolto dopo ben 14 anni, ai generali dei carabinieri Mario Mori, ex capo dei Ros che aveva arrestato Riina, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno e l’ex senatore Marcello Dell’Utri. Indagati per fatti connessi e poi assolti anche l’ex ministro degli interni Nicola Mancino. Per dell’Utri era chiaro l’intento di arrivare a Silvio Berlusconi, di cui era stato intimo collaboratore anche nella fondazione di Forza Italia. Indiziati anche i fratelli Graviano, mafiosi dichiarati, che non vollero collaborare coi pm ancorché lo avessero promesso. Furono appunto convocate molte decine di televisioni da tutto il mondo per assistere alla confessione dei Graviano, per l’apoteosi dei pubblici ministeri. Il colpo andò a vuoto perché i due malavitosi decisero di non collaborare. Tuttavia certa stampa, i giornali che campavano con le notizie passate sottobanco da ambienti giudiziari, continuarono ad affastellare illazioni e costruire spettacoli televisivi di una inaudita faziosità. Un contesto che turbò non poco l’atmosfera durante il processo di primo grado alla fine del quale furono sentenziate condanne per tutti gli imputati. Un’atmosfera greve e forcaiola che cominciò l a vacillare allorquando le perizie accertarono che il “papello” era falso e costruito ad arte e che Ciancimino mentiva spudoratamente. Un fatto che minava alla base i presupposti indiziari dei pubblici ministeri e dei fiumi di inchiostro versati per le tesi accusatorie, rendendo muto il profluvio di parole dei professionisti dell’antimafia. Come sempre accade innanzi agli errori marchiani degli inquirenti calò il silenzio e la macchina del fango, del combinato disposto, fatto di interessi coincidenti, politici, giornalistici e giudiziari, restò ferma. Il tribunale in appello di secondo grado – è notizia di questi giorni – ha verosimilmente potuto godere di un clima di maggiore chiarezza e di serenità ambientale per potersi pronunciare con le eloquenti assoluzioni. I carabinieri assolti perché i fatti non costituivano reato e Dell’Utri pure, perché i fatti a suo carico erano inesistenti. Un altro caso di mala giustizia, insomma, è stato risolto dopo un calvario per gli inquisiti durato anni. Uomini distrutti nell’immagine e nella carriera, quella stessa che, invece, ha progredito per i magistrati, che notoriamente si appoggiano alla notorietà ed alla anzianità. Lo scudo della vecchia menzogna che l’autonomia delle toghe debba necessariamente coincidere con la loro impunibilità, funzionerà anche in questo caso. L’ipotesi di reato ipotizzato per i malcapitati era quella di attentato al corpo dello Stato. Di quello Stato che continua a tutelare, indefesso, solo il corpo di questi suoi dipendenti in toga e giammai quello dei propri cittadini.

*già parlamentare