“IL NOME DEL FIGLIO”: UN “CARNAGE” CON MENO PRETESE

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di Mariantonietta Losanno 

Quella che in “Perfetti sconosciuti” era una cena tra amici, ne “Il nome del figlio” è una cena tra parenti, in cui si comincia a litigare per il nome di un bambino in arrivo. Lo scontro, però, si allarga e diventa devastante. Tutti contro tutti: un gioco al massacro tra dispetti infantili (in cui ci si “offende” con soprannomi dati per goliardia), riferimenti letterari e – persino – influenze politiche. Una carneficina che ricorda quella di Polański (soprattutto per il fatto che si abbandona la “facciata perbenista” per dare il via alla “strage”), ma più divertente e con meno pretese. La pellicola di Francesca Archibugi, la cui sceneggiatura è stata scritta insieme a Francesco Piccolo, si dimostra un valido esercizio di “intelligenza”, ma annaspa un po’ perdendosi nell’eccessivo mélo e ricorrendo a schemi narrativi più che inflazionati. 

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Il film si ispira a “Le prénom” (che in italiano è stato tradotto “Cena tra amici”, in modo da svilire quasi completamente gli intenti di base) e, purtroppo, si sa, i francesi la commedia la “fanno meglio”: sono più versatili, disinibiti, coraggiosi, irriverenti. Quasi senza inventare nulla, sanno innovare esplorando persino dei sottogeneri: senza piagnistei e moralismi, le commedie francesi mantengono in equilibrio la componente divertente e quella commovente. Ne sono un esempio “Quasi amici”, “Giù al nord”, “Piccole bugie tra amici”, “Tutto sua madre”, “Non sposate le mie figlie”, e, ovviamente, “Il favoloso mondo di Amèlie”. O, ancora, volendo andare più indietro, “Delicatessen”, “Domicile conjugal” (tradotto nell’infelice titolo italiano “Non drammatizziamo…è solo questione di corna”), “Bande à part”“Mio zio”. In più, i remake possono essere configurati come degli “azzardi”. Nonostante questo, “Il nome del figlio”, gode di una sceneggiatura intelligente e di una regia mai intrusiva, e si dimostra efficace nel portare in scena non solo gli stereotipi, ma anche argomenti delicati – soprattutto in un paese di pericolosi “atei politici” – come le ideologie. La politica diventa il pretesto per dire finalmente la verità: vengono fuori giudizi, limiti scaturiti dall’ignoranza e altri dalla presunzione, problematiche interpersonali e rivelazioni inaspettate. I personaggi buoni(sti) dell’Archibugi si scontrano tra le mura di una casa, per poi riconciliarsi sulle note di “Telefonami tra vent’anni” di Lucio Dalla. 

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Che i nomi fossero importanti ce l’aveva insegnato Oscar Wilde ne “L’importanza di chiamarsi Ernesto”, e l’Archibugi “sfrutta” l’occasione per rappresentare le idiosincrasie di un’Italia artefatta. La pièce teatrale si trasforma, allora, in un gioco antropologico (e non erotico come in “Metti, una sera a cena”) dal sapore nostalgico. I personaggi incarnano una forte tipicità: la destra è consumista e ignorante e la sinistra sprezzante e intellettualistica. I tanti luoghi comuni sono così rassicuranti da prendere in giro loro stessi senza sforzarsi. Si (sor)ride, con una sottile amarezza: ci si sofferma sui valori e sugli ideali e su quanto oggi si faccia fatica a credere ancora in qualcosa. Un’amabile riunione conviviale (meno affollata di “A casa tutti bene”) aiuta a creare un contesto in cui soffermarsi su argomenti spinosi, sulla nostalgia dell’infanzia che vorrebbe poter fermare il tempo, su disillusioni e contrasti sociopolitici attuali. Se non ci si ferma allo stereotipo, il materiale narrativo si arricchisce. “Il nome del figlio”, nonostante l’umorismo sottotono rispetto a quello francese, mette in scena un modo “diverso” per affrontare il passaggio all’età adulta, quella difficoltà di prendere decisioni e accettare cambiamenti che potrebbe far aspettare con rimpianto che ci si “telefoni tra vent’anni”.