IL PORTO DELLE NEBBIE

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   –   di Vincenzo D’Anna*   –                                                     

Carneade chi era costui? S’interrogava il pavido Don Abbondio nei “Promessi Sposi”. In sintonia col curato di manzoniana memoria oggi potremmo interrogarci  su quale sia stata la fine di Luca Palamara, togato radiato dalla magistratura con ignominia per aver fatto parte di una rete “politico-clientelare” che gestiva le nomine nelle principali Procure della Repubblica in combutta con certi dirigenti della sinistra italiana (e del Pd in particolare). Che fine abbiano fatto le ulteriori registrazioni acquisite dagli inquirenti relative a colloqui inerenti quelle pratiche corruttrici e non ancora rese note all’opinione pubblica, rimane un mistero. Tacciono, infatti, i giornali che notoriamente sono vicini ai giudici politicizzati, a quei pm nei quali, sotto sotto, batte un cuore tutto vocato a mettere alle strette gli esponenti politici di segno contrario a quello dei loro “mallevadori”. Come mai non girano le solite veline che, nel corso degli anni, hanno puntualmente violato il segreto istruttorio, alimentando, con costanza e puntualità, le campagne della stampa amica? Sono centinaia le persone processate sui mass media, condannate ante processo ed additate come esponenti delle peggiori collusioni con i poteri forti se non anche con la malavita. Fior di carriere sono state distrutte e azzerate. Giunte e governi democraticamente eletti, sono stati defenestrati, sovvertendo, con questo, le indicazioni stesse fornite dagli elettori, con buona pace del principio d’innocenza che pure è dettato dalla Costituzione. Per decenni questi inquisitori hanno dettato legge acquisendo, per il tramite dello scudo loro garantito, un potere assoluto ed irresponsabile anche innanzi agli esiti di procedimenti che poi sono finiti col proscioglimento dei presunti colpevoli. E quei giornalisti detentori di un morale intransigente secondo la quale anche il solo sospetto ed il dubbio diventavano l’anticamera della colpa? Dove hanno riposto, costoro, la loro missione moralizzatrice? Al caso Palamara è stata messa la sordina. Il bavaglio giudiziario (e giornalistico), dopo il clamore dello scandalo iniziale, due folate incendiarie finite nel nulla, conclusesi subito dopo la pubblicazione del libro “Il Sistema” che ha sbancato in libreria. Lo dimostra il fatto che ancora oggi molti dei procuratori coinvolti nelle “pratiche” e negli “inciuci” denunciati da Palamara e che hanno visto tirare in ballo anche il dem Luca Lotti, reggono ancora, indisturbati, la direzione di alcune tra le più grandi procure del Belpaese. Di altri togati (e per qualche “pezzo da novanta”) ancora si attende che siano rese note le registrazioni delle intercettazioni ed anche il perché ed il percome delle mancate registrazioni a loro carico, per un fortuito motivo tecnico. La celerità con la quale, in passato, taluni processi furono imbastiti e celebrati, rimane un ricordo. Per condannare Silvio Berlusconi, in poco più di due anni, si arrivò alla sentenza della Cassazione. Una sentenza proferita da un collegio feriale della Suprema Corte, ovvero sottraendolo al suo giudice naturale. Delle vicende giudiziarie del cavaliere furono rese note anche le notizie pruriginose, quelle che pur non avendo un significato penale, contribuivano a demolirne l’immagine. La macchinazione di Palamara scoperta, oltre due anni addietro, evidenziò quanto stretta ed ampia fosse l’intesa tra certe aree politiche della sinistra e taluni correnti della magistratura militante. Ad oggi però, di iniziare il processo e di mettere le carte in tavola non se ne parla nemmeno. Sarà stata la concomitanza del lockdown dovuto al Covid, ma non ci vuole una particolare inclinazione alla maldicenza per pensare che tutto sia stato messo in soffitta perché il tempo cancelli ed attenui le fattispecie diminuendone l’insita pericolosità sociale. Non è possibile immaginare altra urgenza e pericolosità sociale di quella che interessa la stessa magistratura, in particolare il Csm oltre che i vertici delle Procure, vale a dire il cuore del sistema giudiziario penale italiano. In questi giorni scendono in piazze i soliti noti per protestare contro l’ipotesi che Berlusconi salga al Quirinale: sono gli odiatori sociali, i manettari. C’è da giurare che ben presto apparirà in tv anche il livido Travaglio con la schiera al completo dei moralisti in servizio permanente effettivo. Quello che invece riguarda lo scempio della giustizia, i favoritismi ed i pastrocchi tra politica e magistratura, per meglio utilizzare la macchina del fango contro l’avversario politico di turno, non avrà cittadinanza negli alati pensieri di questi “indignati”. Fatti che resteranno nell’oblio, insomma, a meno che parte di quel materiale investigativo, finora serbato, non possa essere (ri)utilizzato per alimentare future campagne di denuncia e denigrazione, condizionamenti e ricatti. Non a caso il giudice etico resta il peggiore in cui ci si possa imbattere: egli non giudica secondo legge ma secondo i valori morali che attribuisce alle medesime. Utilizzare la legge per elevarla a strumento di moralizzazione della società significa snaturare la funzione della giurisdizione. Peggio ancora se, applicandola a priori, ci dovessimo trovare nel porto delle nebbie.

*già parlamentare