OSLO, 31 AGOSTO: AUTOCOMMISERAZIONE, VERGOGNA E STIGMATIZZAZIONE DEL DOLORE

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di Mariantonietta Losanno 

Il secondo capitolo della “Trilogia di Oslo” è una disamina della condizione di alienazione di Anders, un ex tossicodipendente che ha quasi finito il suo programma di riabilitazione e ha diritto a ventiquattro ore di libertà per andare ad un colloquio di lavoro. In una sola giornata, quindi, Anders rivede amici e parenti, vive la “sua” Oslo e riflette sulla possibilità di ricominciare da capo. 

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“Se deve finire così, deve essere per una scelta che ho fatto io”, si ripete Anders. Se lo ripete talmente tante volte, però, da sentirsi – allo stesso tempo – eroe e vittima della situazione. Eroe per essere stato capace di restare “pulito” per dieci mesi, vittima per il fatto di essere un tossico (ed essersi stigmatizzato da solo) tanto da voler suscitare pena nelle persone. Se è vero che il dolore distrugge, è vero anche che giustifica. C’è chi, infatti, nella sofferenza trova alibi e scusanti; chi agisce pensando di doversi attenere all’immagine di sé alterata creata proprio dal dolore. Ed è così, allora, che la tossicodipendenza diventa anche qualcosa di cui potersi “servire”. Oscillando tra il cinema ipnotico ed allucinato di Gaspar Noé e quello intimista e doloroso di Xavier Dolan, Joachim Trier costruisce con “Oslo, 31 agosto” (adattamento del romanzo “Fuoco fatuo” di Pierre Drieu La Rochelle) un’opera dissacrante che approccia al dolore demitizzandolo. Il regista non “riduce” tutto alla droga, si focalizza sulla perdita di fiducia di sé che porta la persona a preferire l’aderenza ad uno stigma che la possibilità di un distacco e di una reazione. 

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Oslo funge da protagonista in una pellicola che concentra l’azione in sole ventiquattro ore – che sembrano “infinite” – ricordando “Una giornata particolare”, “L’odio” o “Magnolia”. La pellicola si distacca dalla claustrofobia di opere che riducono gli “spazi”; in questo caso è il tempo che si riduce ma non per questo si restringe. Anders subisce il “suo tempo”, ma è lui a disporne. Subisce le sue scelte su cui riflette così tante volte da ossessionarsi. Chi conosce bene la propria condizione conosce anche i meccanismi di manipolazione. Il regista non giudica Anders né, però, lo giustifica: si concentra sulle responsabilità, sulle scelte, sulle occasioni per ripartire. Analizza, poi, la rassegnazione, il fallimento, il totale abbandono. 

Lo spettatore empatizza con Anders accompagnandolo nelle sue ventiquattro ore di libertà. Avverte il vuoto, la solitudine, l’angoscia. Quelle ventiquattro ore sembrano le ultime, come se ci fosse una sola ed unica occasione per recuperare. Si può realmente ricominciare da zero? Ci si “appoggia” al dolore o ci si resta “incastrati”?