OSSESSIONI PIÙ O MENO NORMALI DI PERSONE STRAORDINARIE

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PEPPE ROCK OSSESSIONI PIÙ O MENO NORMALI DI PERSONE STRAORDINARIE  

–   di Peppe Rock Suppa   –   

Flaubert sosteneva che l’Artista deve far credere alla posterità che egli non sia mai vissuto. Mica come oggi dove sono tutti a mettersi in mostra a destra e a manca, allo Strega o da Fazio, perché a contare ci saranno solo le opere, e l’immenso Proust non la pensava diversamente, ci scrisse anche un saggio: il famoso Contro Sainte-Beuve (Sainte Beuve era un critico che per capire un romanzo doveva prima leggere la biografia dell’autore). Anche perché la vita degli scrittori è sempre molto incasinata, una ragnatela di ossessioni, nevrosi e amori disperati che porterebbero qualsiasi psichiatra a uscire fuori di testa.

Così per scrivere la Recherche, per esempio, è necessario chiudersi in una stanza rivestita di sughero per un ventennio, lavorare di notte e far decontaminare gli ospiti da ogni agente esterno (Proust era malato d’asma), non lasciando entrare neppure la donna delle pulizie, con la polvere che si accumula sui mobili in grossi bioccoli che sembrano dei cincillà. L’amore? Proust si strugge per Albertine, lo scrittore si strugge per uomini, l’ormai famoso Alfred Agostinelli, ma chiude in tronco ogni rapporto dopo diciotto mesi (durata massima della passione secondo Proust).

In ogni caso tra i più sfigati, nell’accezione attuale del termine, c’è Giacomo Leopardi, single a vita per forza (ma cosa sarebbe della poesia disperata di Leopardi se avesse messo su famiglia? Silvia rimembri ancor quando cambiavamo i pannolini ai nostri bambini?), a parte la coppia formata con l’amato amico Ranieri (ci sarà mai stato qualcosa di fisico tra loro?), tale e quale come nelle sue poesie, con l’unica vera passione carnale per i gelati, che a Napoli, per via del colera, gli costerà la vita (sarà da qui che viene il detto «vedi Napoli e poi muori»?). D’altra parte è difficile vedere l’infinito come lo vedeva Leopardi e avere una relazione normale con una persona finita.

Come per Kierkegaard, filosofo del malessere esistenziale, che come ricorda Catà si innamorò di Regine Olsen, e a differenza dei sogni poetici di Leopardi era un amore perfino corrisposto, ma la lasciò di punto in bianco senza dare alcuna spiegazione. Il problema era l’ossessione per l’assoluto, l’inconciliabilità tra la finitezza della vita e la sconfinatezza dell’amore: «la ama troppo per accettare di vivere una singola vita con lei. Vorrebbe amarla nell’infinito». Lei, per essere all’altezza di un filosofo così straziante, tenta il suicidio (il mondo della letteratura è costellato di suicidi tentati o riusciti). Tuttavia, essendo una donna, si rifà presto una vita con un altro a Copenaghen, e lui ne muore, nel vero senso della parola.

hemingway 257635 OSSESSIONI PIÙ O MENO NORMALI DI PERSONE STRAORDINARIEVita amorosa più movimentata quella di Ernest Hemingway, un vero playboy, altro che Leopardi e Kierkegaard: non era ghiotto di gelati ma di gin, e nel gin affogherà il rimpianto di un amore mai vissuto, quello per Agnes von Kurowsky, incontrata al bar (e dove sennò?) che però poi sposerà un medico napoletano (in qualsiasi storia prima o poi si finisce a Napoli). Riguardo al gin, se volete fare come Hemingway, mai con il ghiaccio, è per uomini deboli, smidollati. A un cameriere risponde: «Nella scorsa guerra, ragazzo, io ho ammazzato a sangue freddo 122 tedeschi, ti sembro un tipo che beve alcolici con ghiaccio?».

A proposito di gin, ne beveva a litri anche Truman Capote, che creava solo disteso sul letto con una sigaretta e un caffè ma non sopportava di vedere più di tre sigarette in un posacenere (e era pure superstizioso, non poteva mai iniziare o finire un romanzo di venerdì).

Ma gli scrittori sono sempre sbronzi o fatti di qualcosa? Spesso, ma non sempre sono droghe. Charles Baudelaire, è noto, si faceva di oppiacei, come Doctor House (e cosa sarebbe stato il simbolismo senza la droga?); meno nota è la dipendenza dalle mele del suo amico Friedrich Schiller, e non per mangiarle: le lasciava marcire perché la puzza ispirava i suoi versi. Sempre meglio di J.D. Salinger, che si dice bevesse la propria urina (a fini terapeutici).

Virginia Woolf è la scrittrice paladina delle lesbiche (pur sposata, diciamo felicemente, con l’adorato Leonard, dal quale prenderà anche il cognome), ma dovrebbe esserlo anche per le anoressiche: il suo rapporto con il cibo era molto problematico. Ghiottissima, forse più di Leopardi, attribuiva al mangiare la causa delle sue sofferenze esistenziali (però non come Marguerite Yourcenar, antesignana piuttosto del pensiero vegano: «mangiare la carne è digerire l’agonia altrui»). In realtà odiava i grassi quanto Anna Wintour di Vogue America, ma una volta ricoverata sembra guarire: «Non intendo fare più scene disgustose per mangiare. Non mi importa quanto mangio pur di andare avanti così. Le voci che credevo mi facessero impazzire pensavo fossero dovute all’eccesso di cibo, ma non è così perché continuo a ingozzarmi, eppure non le sento più. Ora in clinica bevo cioccolata e mangio biscotti e caffè cattivo». Dall’anoressia si convince quindi del contrario, passando da un eccesso all’altro: più si pesa, meglio si sta.

All’amico Jacques Raverat scrive: «Sono contenta che tu sia grasso; perché allora sei cordiale, generoso e creativo. Trovo che se non peso 60 chili sento le voci e ho le visioni, e non riesco a scrivere né a dormire». Tuttavia mettere su chili non la salverà dalla depressione e dal suicidio (il 28 marzo del 1941 si riempie le tasche di pietre per andare a fondo nel fiume Ouse), e d’altra parte le ossessioni di uno scrittore sono spesso così devastanti che neppure l’alcol è stato capace di impedire il suicidio a un vitalista sfegatato come Hemingway. Alla fine, tra tutti, l’unico che nelle sue tremende ossessioni cosmiche voleva vivere e non ha mai pensato al suicidio, al contrario di quanto si possa pensare, è proprio Leopardi.