“UNA SEPARAZIONE”: LO SGUARDO LUCIDO DI FARHADI E L’ESCALATION DELLA VIOLENZA

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di Mariantonietta Losanno 

Ricatti, attese, violenze: Asghar Farhadi  mette in scena una storia che si “espande” su vari fronti, a partire da una “piccola” frattura. Così viene definito quello di Simin e Nader: un “piccolo problema”. Lei vuole lasciare l’Iran insieme a lui e alla loro figlia Termeh; Nader, però, non vuole lasciare il padre malato di Alzheimer e Simin decide, allora, di chiedere il divorzio e di tornare a vivere con i suoi genitori.  Per aiutarlo ad assistere il padre, Nader si fa aiutare da una giovane donna che lavora all’insaputa del marito ed è incinta. Dalla “piccola frattura” iniziale se ne scatenano altre irreparabili e violente. 

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Quello di Farhadi è un cinema di “indagine”, che investiga sul ruolo della religione e sulle dinamiche delle classi sociali. Un cinema che, come quello di Kiarostami, mantiene uno sguardo lucido e che racconta l’Iran, i suoi valori, la sua cultura, le sue difficoltà. Se ne “Il sapore della ciliegia”, Kiarostami cercava disperatamente di convincere persone – facendo leva sul compenso dato in cambio – ad aiutarlo nella sua “missione”, Farhadi si propone di spiegare le reazioni a catena della violenza ponendosi “al fianco” dei suoi personaggi, assumendo persino un atteggiamento “ricattatorio”. O meglio, non viene “proposto” un vero e proprio ricatto allo spettatore, ma si insinua – in modo naturale – un senso di colpa, quasi come se l’immedesimazione e l’empatia fossero obbligate. Lo spettatore, cioè, sente di “dover” difendere i personaggi e accettare i loro comportamenti considerandoli “giusti”. La violenza, poi, cambia il senso di ogni cosa e ribalta le situazioni; ad un certo punto, si rimane in una situazione di “stallo”, in attesa di una risposta o di una soluzione che restano dolorosamente incerte. 

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Farhadi si espone suggerendo riflessioni importanti per la società iraniana ma non solo. La condizione femminile, l’espatrio, i dettami di una cultura maschilista, il peso della responsabilità e delle scelte: “Una separazione” mette lo spettatore alla prova della verità e di fronte alla scelta di mentire per difendersi o per difendere qualcun altro. Si accumulano costantemente domande di tipo etico, politico, sociale; la “separazione” a cui fa riferimento il titolo ne svela poi altre, che mettono in discussione i codici giuridici e religiosi. “[…] è come quando sogni una cosa e vuoi raccontarla. Provi a farlo con tutti i dettagli, ma in definitiva nessuno può sognare quello che hai sognato tu”, chiarisce Farhadi in riferimento al suo “processo creativo”. “Decido di raccontare la storia partendo da una situazione di crisi. […] Cerco di abbinare alla trama lo stile di un film d’investigazione. Non mi piace rendere gli spettatori passivi”

“Una separazione” – Orso d’Oro a Berlino – è la rappresentazione di un cinema che sa raccontare presente e passato, senza imporre mai un quadro morale ed etico definitivo, né esprimendo giudizi assoluti. D’altronde, come si può scegliere – al posto di altri – se scappare o restare, o se mentire per salvarsi o salvare chi ne ha (più) bisogno?