SCUOLA E DISABILITÀ: QUANTO C’È ANCORA DA FARE?

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Un soggetto disabile fin dalla nascita si trova davanti un percorso tutto in salita. Ogni giorno è costretto ad affrontare nuove sfide sul piano del linguaggio, del comportamento, della mobilità. Egli non può e non deve essere lasciato da solo ma deve essere aiutato da persone professionalmente preparate che sappiano leggere i suoi bisogni e le sue capacità, anche quelle meno evidenti, e siano in grado di comprendere anche i più piccoli segnali di miglioramento e di cambiamento. Alla luce di ciò, un ruolo fondamentale lo giocano, insieme alle famiglie e le varie istituzioni, la scuola e gli insegnanti, che accompagnano tutti gli studenti nel loro percorso formativo. La scuola è il primo ambiente nel quale il bambino impara a ritagliarsi uno spazio di autonomia dai genitori iniziando a relazionare al di fuori del nucleo familiare. In presenza di un deficit, sia esso motorio, sensoriale o psichico, questo naturale processo di crescita viene rallentato, non tanto dalle difficoltà dovute all’handicap, oggi più facilmente superabili anche grazie alla tecnologia, ma piuttosto dal sistema scolastico che non ha ancora attuato pienamente le necessarie politiche di integrazione. Non è univoca l’accezione con la quale viene individuato il portatore di handicap perché connotazioni mediche, psichiche e sociali confluiscono in essa. Il termine handicap rappresenta la discrepanza tra l’efficienza o lo stato del soggetto e le aspettative di efficienza e di stato sia dello stesso soggetto, sia del particolare gruppo di cui egli fa parte; come pure resistenza alla riduzione di asimmetria tra essere e poter-dover essere. È il caso notare che la definizione didattica del termine portatore di handicap può assumere un ulteriore significato: può essere visto come una persona con difficoltà, destinataria di un processo educativo didattico mirato che sfrutti al meglio le sue potenzialità. Naturalmente, una visione negativa dell’allievo che vive una situazione di svantaggio può essere anche considerata: il portatore di handicap è un soggetto che vive una condizione di disagio, come conseguenza di una menomazione o di una disabilità, che limita o addirittura impedisce le normali abilità cognitive ponendolo in una posizione di difficoltà di apprendimento e/o di relazione.

 I docenti di sostegno, per competenza ed esperienza, mirano a favorire la piena integrazione scolastica e sociale del disabile, proponendosi come portavoce delle reali esigenze degli allievi, rappresentando di fatto il trait d’union con gli insegnanti curriculari. D’altro canto, quest’ultimi garantiscono la libertà e la dignità personale di tutti gli allievi e, naturalmente di quelli disabili, realizzando l’uguaglianza di trattamento attraverso il rispetto reciproco. In tale visione l’insegnante curriculare aiuta il disabile soprattutto dal punto di vista umano e sociale. Emerge, pertanto, la difficoltà nello svolgimento del lavoro educativo–didattico nei riguardi dell’allievo portatore di disabilità: la complessità e l’articolazione di tale processo richiede l’intervento di tutte le componenti scolastiche nella loro globalità. Di conseguenza, il raggiungimento degli obiettivi e le modalità di intervento quanto più possibile adeguati alle potenzialità degli allievi con handicap si realizzano solo attraverso l’azione sinergica delle componenti dell’intero Consiglio di classe di appartenenza. Il progetto di un insegnante che è costretto ad operare isolato ha meno possibilità di riuscita del progetto istituzionale che coinvolge le diverse componenti dell’organizzazione scuola che è fondamentale per la qualità della didattica. Per perseguire gli obiettivi formativi degli allievi portatori di handicap occorre partire dai loro diversi bisogni e dalle loro peculiarità ed è necessario attivare strategie che superino i normali percorsi didattici, utilizzando tutte le risorse disponibili. Le strategie in esame devono rappresentare la cerniera tra l’alunno in situazione di disabilità e/o handicap e la classe e devono attribuire ruoli distinti e complementari agli alunni attraverso apprendimento cooperativo e/o tutoring. L’allievo in situazione di disabilità o handicap deve essere costantemente condotto a percepire che i compiti della classe non sono a lui totalmente estranei ma, al contrario, sono risolvibili e possono essere appresi a diversi livelli. Pertanto, mentre gli allievi della classe lavorano ad un compito specifico, l’allievo disabile dovrebbe, per quanto possibile, partecipare allo stesso compito, in forme adattate e/o ridotte che rientrano nella cultura caratterizzante il compito medesimo.

Se volessimo rendere un’idea a che punto è oggi l’inclusione scolastica in Italia, nonostante la prima riforma c’è stata nel 1977, con la legge 577, che sanciva il diritto all’istruzione e all’educazione nelle sezioni e classi comuni per tutte le persone in situazione handicap, passando dalla legge a legge 104/92 che affrontava in maniera organica tutte le problematiche dell’handicap, valorizzando il diritto all’istruzione e all’educazione nelle sezioni e classi comuni per tutte le persone in situazione handicap e non ultima la legge n°134 del 2015, che decretava le disposizioni in materia di diagnosi, cura e abilitazione delle persone con disturbi dello spettro autistico e di assistenza alle famiglie, la potremmo paragonare ad una macchina con il motore acceso e una forza motrice importante, ma con tutte le quattro ruote nel fango. Le ruote girano a mille ma invano, la macchina non si riesce a tirarla fuori. Ci sono circa 280mila studenti, si spendono 7 miliardi di euro solo per il sostegno didattico, ma i risultati non sono ancora soddisfacenti, perché la cultura che si ha della disabilità ancora non mette al centro l’alunno. Non si costruisce ancora un percorso attorno allo studente, chiamando alla corresponsabilità tutto il contesto educante. Alla riforma purtroppo mancano ancora molti pezzi, a cominciare dalla famosa continuità didattica, prevista all’art 14 del decreto legislativo n. 66/2017 e inattuata da quattro anni. Non verrà garantita nemmeno quest’anno. E anche l’istruzione domiciliare non ha un suo assetto giuridico ed è lasciata al buon cuore dell’insegnante di sostegno. C’è la questione del profilo di funzionamento, oltre a quella relativa al profilo dell’educatore professionale e degli standard qualitativi per l’assistenza alla autonomia e alla comunicazione. Si parla molto di una proposta di stabilizzazione di queste figure, nel senso della statalizzazione: una scelta che ha dei pro ma anche dei contro, soprattutto se guardiamo le cose non dal punto di vista dei lavoratori. ma da quello dei ragazzi. Oggi con gli assistenti educativi in capo agli enti locali, si può garantire continuità della stessa persona che affianca il ragazzo a scuola al mattino e nelle altre attività e ambienti il pomeriggio. Con la statalizzazione questa possibilità verrebbe meno e i ragazzi avrebbero un educatore o assistente a scuola e al pomeriggio un altro, con grande danno per la qualità dell’inclusione. Il mondo scuola è ancora purtroppo qualche passo indietro ai livelli e alle nuove tipologie di disabilità degli alunni, in crescente aumento.
La storia di Jacopo è un esempio reale negativo e non passa inosservata: ha sedici anni ed è un ragazzo autistico che frequentava il primo anno del Liceo artistico di Bari, ma la famiglia si è vista costretta a ritirarlo dalla scuola. Sua madre, insegnante, ha fatto la scelta d’istruirlo in casa. In dieci anni Jacopo ha cambiato ben diciassette insegnanti di sostegno, neanche il tempo di abituarsi che subito sulla sedia difronte al suo banco vedeva un nuovo volto. Alcuni neppur qualificati per svolgere l’assistenza tanto delicata che il ragazzino richiedeva.
Basta, ci siamo arresi”, si sfoga la madre. E spiega che fino alla primaria è andato tutto bene ma dalle medie in poi è stato sempre peggio. Finché al primo anno di liceo è arrivata la decisione necessaria: il giovane non andrà più a scuola. “La scuola ha bisogno di professionalità formate e non di chi sceglie l’insegnamento come ripiego” evidenzia la donna, spiegando che nessuno dei docenti riusciva a comunicare con il figlio perché non aveva una formazione specifica.” L’ultima insegnante di sostegno- continua la madre-  è stata un’avvocata, mentre quando Jacopo frequentava la secondaria di primo grado chi lo aiutava a svolgere le sue attività in classa era una laureata in Scienze Forestali che non aveva mai messo piede in una scuola. Figuriamoci ad ascoltare e lavorare con un alunno con bisogni speciali.“ La madre decide di mettere un punto a tutta questa brutta situazione, quando scopre che Jacopo gran parte del tempo non è in classe con i suoi compagni ma viene isolato nell’aula di sostegno; non potendo comunicare ed interagire con gli altri.  Jacopo era consapevole di non essere in classe e questo lo rendeva un ragazzino nervoso anche nelle ore pomeridiane quando era a casa con la sua famiglia. In più Jacopo per comunicare ha bisogno di un comunicatore o dei simboli cartacei, ma la scuola non forniva niente di tutto questo. La scuola non forniva la giusta istruzione ad un alunno con bisogni speciali, che con i giusti strumenti riesce a dare tanto. Così, sua mamma ha scelto di prendersi un anno , di stop, lontano dalla sua classe, le sue colleghe, i suoi alunni, per seguire ed istruire suo figlio nelle sua mura domestiche.

4 Commenti

  1. Nn si tratta solo di “elaborare” il dispiacere inerente alla disabilità dei nostri figli, ma il problema e” affrontare tt ciò ke la societa’ “non” ci offre …la scuola e” una di qst!

  2. Se potessi, costruire delle strutture scolastiche per i disabili, partendo dalla primaria, alla secondaria di primo grado, e finire con l’università, ma ovvio con docenti preparati in primis sulla disabilità e poi ovvio sull’insegnamento. Non sempre gli insegnanti di sostegno sono preparati nel ricoprire quel ruolo, perché non si ha la tanta conoscenza che permette loro di lavorare al fianco di coloro che hanno varie forme (se così la si può definire) di disabilità. Per fare tutto ciò, occorre che vengano create ed approvate nuove riforme, occorre che il Governo inizi a pensare di fare altro per i disabili, inizino a costruire per loro un futuro e farli sentire parte integra di questa società, che oggi pecca di tante mancanze.
    Complimenti come sempre Dottoressa Canzano, un vero piacere leggerla e risponderla su una tematica tanto importante ma di cui ben poco parlata.

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