“BONES AND ALL”: LA RICERCA DELL’“ASSOLUTO”, NEI CORPI, NELL’ANALISI PSICOLOGICA DEI PERSONAGGI E NEL CINEMA

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di Mariantonietta Losanno 

Che Guadagnino abbia consapevolezza di quello che sta “costruendo” è certo. E questo non (solo) per quello che è successo a Venezia, dove ha ricevuto il Leone d’argento (dedicato a Jafar Panahi prigioniero in Iran, “Viva la sovversione. Questo premio è per lui”), e per l’accoglienza – potremmo definirla “calorosa” – che ha avuto il film. “Bones and All”, proseguendo il cammino tracciato da pellicole precedenti, rappresenta uno stadio maturo di coscienza; l’identità di Guadagnino (che potremmo ritenere “mostruosa”, espressione utilizzata dal regista stesso durante i ringraziamenti a Venezia: “Alla giuria per aver dimostrato che esiste ancora spazio per i mostri”) è ancora più chiara e definita, diretta verso un obiettivo preciso e coerente che, proprio con l’uscita nelle sale della pellicola si è reso ulteriormente evidente. Guadagnino insegue un’idea di cinema “viscerale”, in cui si indagano i corpi, la violenza, l’amore, in senso assoluto. Totale, come se oltre quel “livello” non ci fosse altro. “Fino all’osso”, appunto. Questa ricerca è diventata la sua cifra stilistica, ed è stata palesata subito, e probabilmente compresa ancora di più oggi in una fase più matura. Si possono ritrovare, infatti, gli stessi temi analizzati in “Bones and All” anche in “Melissa P.”, opera in cui viene rappresentata la disperazione di un’adolescente ossessionata dall’amore, che scopre in modo violento e traumatico: l’iniziazione sessuale di Melissa si presenta come un viaggio verso l’autodistruzione e la brutalità. Si trasforma, allora, in un racconto di de-formazione. 

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Ritorna l’adolescenza, la diversità e la sofferenza in “Bones and All”, in cui i protagonisti sono Maren e Lee, due ragazzi che sanno riconoscersi “fiutandosi”, essendo entrambi cannibali. Ci troviamo verso la metà degli anni Ottanta, nella società americana dell’era Reagan. Maren viene abbandonata dal padre che, consapevole della sua natura, decide di lasciarle percorrere la sua strada autonomamente, lasciandole, però, delle indicazioni sotto forma di confessione registrata, che la ragazza ascolta cercando di individuare la sua meta. Una volta focalizzato il punto di arrivo – sua madre – si mette in viaggio e, come in ogni road movie che si rispetti, incontra lungo il tragitto persone come lei, vagabondi ed emarginati. Prima di conoscere Lee, incontra Sully, un uomo molto più grande di lei e con molta più esperienza; è lui a svelarle qualche segreto sulla loro natura, a fornirle qualche strumento per essere più forte e indipendente. Ne diventa, però, anche ossessionato. Maren riesce a svincolarsi da questa presenza e a proseguire il suo viaggio; l’incontro con Lee, poi, segna un’altra fase di crescita, in cui mentre impara a conoscere in modo più concreto l’amore, comprende anche quali sono i suoi limiti e, soprattutto, quali sono gli aspetti della sua natura che vorrebbe cambiare. 

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La metafora del cannibalismo è, sicuramente, un elemento interessante per un’analisi della “diversità” (intesa come senso di emarginazione o di distanza da altri, tipica dell’adolescenza) e dell’incapacità di essere accettati e compresi. Il fatto che tra di loro sappiano “annusarsi” e, quindi, riconoscersi, dà loro forza: Guadagnino insiste sulla solitudine, sul desiderio (umano e legittimo) di poter confrontarsi con l’altro. Il segreto che condividono e la “fame” che sentono, definiscono le loro identità; non possono, però, sottrarsi alla loro natura ed evitare di sporcarsi di sangue (eccessivamente, perché il regista non riesce ad evitare qualche scena splatter dai colori accesi che rimandano a quelli di “Suspiria” di Dario Argento, di cui ha realizzato un (non)remake), commettendo crimini e provando a giustificarli attribuendo le colpe alla loro indole, tentando di giustificarsi. La riflessione, allora, si sposta anche sulle responsabilità che una diversità intesa in questi termini comporta: a quali conseguenze ci si espone? A quali responsabilità non ci può sottrarre? L’approccio “fisico” di Guadagnino permette di sentire in modo tangibile il senso di colpa e l’inquietudine: “L’effetto che il film riesce a fare è quello di permetterti di metterti nelle scarpe di personaggi che sulla carta non avresti mai avuto interesse a seguire – osserva – e il film ti fa seguire il loro destino amoroso. Questo è quello che il cinema ti permette di fare”, ha raccontato. 

La soluzione proposta, però, quella che dovrebbe “salvare”, è più complessa da “digerire”: Guadagnino punta all’esperienza immersiva, al saper dosare poesia (e filosofia, quella che per Deleuze era “una serie di vibranti colpi di martello”) e violenza, ma non tutti i “sapori” possono essere compresi. Lontano da altre pellicole sul tema (“Delicatessen”, “Green Inferno”, “Il silenzio degli innocenti”), Guadagnino punta al suo spazio, e lo fa “non diventando come la gente”, mantenendo coerenza con i suoi intenti; la metafora del cannibalismo è “funzionale” per osservare i luoghi dell’orrore che lo affascinano, per indagare gli eccessi, per analizzare la solitudine e l’abbandono. È l’idea dell’appropriazione dell’altro – espressa, forse, in modo meno credibile e sofisticato rispetto al resto – del “pasto completo”, a rappresentare un sacrificio estremo che non tutti possono essere disposti a compiere.