“PINOCCHIO”: LA “FIERA” DELLE AUTENTICITÀ DI GUILLERMO DEL TORO DOPO QUELLA DELLE “ILLUSIONI” 

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di Mariantonietta Losanno 

“Pinocchio è un personaggio che colleziono. Una connessione molto forte che avevo con mia madre. È stato il secondo o terzo film che abbiamo visto insieme al cinema. Anche a casa mia è venerato. Questo significa che questo è il Pinocchio di Guillermo Del Toro. Non è Disney, non è Collodi. È il mio. Quindi, partendo da questo, se vieni aspettandoti altro non ti piacerà. Se invece aspetti questo, troverai un film che è tutt’uno con il “Il Labirinto del Fauno”, “La Spina del Diavolo”, “La Forma dell’Acqua” e “Cronos”, ha raccontato il regista sul suo “Pinocchio”, distribuito sulla piattaforma Netflix a partire dal 9 dicembre. 

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È il caso di dirlo: finalmente una rivisitazione dell’opera di Collodi. Una riscrittura libera, personale, nuova. Un’occasione, per del Toro, di tornare alle origini e, al tempo stesso, di (ri)mettere in scena tutti i temi (ricomponendoli e ricostruendoli con la stessa dedizione di Geppetto) sviluppati nella sua filmografia. La storia, ad esempio, che – anche in questo caso – funge da protagonista. E i fantasmi, i “mostri” da cui sembra tanto affascinato; l’atmosfera fiabesca, la scelta di un romanticismo “atipico” (che trova la sua espressione più coerente ne “La forma dell’acqua”), l’ossessione per i simboli, i sogni, l’immaginazione. Guillermo del Toro adatta il racconto di Collodi alla sua poetica, mantenendo i personaggi classici e rispettando i tratti salienti, rendendogli omaggio. Infatti, il figlio che Geppetto perde sotto i bombardamenti, prima di costruire Pinocchio, si chiama Carlo, come Collodi. A un certo punto, però, sarà lo stesso Pinocchio a dire: “Non voglio essere come Carlo!”. Come a voler suggerire di non voler essere come quello che Collodi voleva che diventasse, e come, poi, è diventato; del Toro abbandona questo ideale e decide di essere “esattamente chi è”, rifacendosi alle parole di Geppetto che, una volta compreso che Pinocchio non può sostituire il dolore della sua perdita, lo invita ad essere se stesso e a non sforzarsi di sostituirsi a Carlo per colmare il suo dolore. La scelta di del Toro è radicale: ribalta anche la morale, focalizzandosi su altri insegnamenti; insiste sul non conformarsi alle regole del “bravo bambino”, che Collodi ha trasmesso al suo Pinocchio, incoraggia la libertà, la disobbedienza, la creatività. Il “nuovo” Pinocchio ha ancora il naso che gli si allunga se dice una bugia, ma, anche in quel caso, in un modo diverso e originale. È l’emblema della ribellione: verrebbe quasi da domandarsi come sia possibile che Netflix abbia finanziato l’idea, dal momento in cui ha così tanto a cuore il compiacimento del suo pubblico. 

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Il regista si sofferma, poi, a lungo sul tema della morte – che non è la fine – dandone una sua personale versione, facendo parlare i suoi personaggi. “Quel che accade accade e alla fine ce ne andiamo”, questa battuta in chiusura suggerisce l’idea che “andarsene” non equivalga a “finire”, ma a continuare a vivere attraverso il ricordo degli altri. Guillermo del Toro esalta – ancora una volta – la stranezza, riportandoci, per un attimo ai “freaks” di Mainetti. Ci parla di autenticità, concedendosi momenti di commozione e di tenerezza, nonostante metta in scena continuamente “mostri”, tra cui anche il duce, che Pinocchio per errore chiama “dolce”, come se nella sua immaginazione potesse esserlo davvero. Incoraggia la libertà di pensiero, realizzando un “Pinocchio” ribelle e anticonformista. “Ci sono 65 diverse versioni cinematografiche di Pinocchio, se a qualcuno non dovesse piacere la mia ha ampia scelta su cui ripiegare. Quello che volevo era non avere un Pinocchio che impara, cambia e diventa un ragazzo vero. Il mio burattino cambia tutti quelli che sono attorno a lui, disobbedisce all’ordine costituito e non diventa un ragazzo vero perché lo è già, non importa quale sia il suo aspetto. Era fondamentale per me evitare qualunque tradizione legata alle precedenti versioni di Pinocchio”, ha raccontato del Toro. Ancora una volta, la sua cifra stilistica è riconoscibile e citabile. La scelta della stop motion, poi, “la più incredibile, esaustiva ed estenuante forma d’animazione”, è la “prova” di come il regista abbia voluto dedicarsi totalmente alla realizzazione di una versione personale e rivoluzionare del suo “Pinocchio”. Una rivoluzione tematica e anche emotiva.