“THE FABELMANS”: IL DIALOGO (MAI AUTOREFERENZIALE) TRA SPIELBERG E IL (SUO) CINEMA

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di Mariantonietta Losanno 

Spielberg ci tiene, per introdurre la sua autobiografia, a “salutare” il suo pubblico, a ringraziarlo per aver deciso di vedere sul grande schermo “la sua lettera d’amore al Cinema”. Un modo per accogliere lo spettatore e introdurlo in uno scenario nuovo (anche se non inedito, considerando che, nei trentaquattro lungometraggi che ha realizzato, ci sono stati spesso dei rimandi alla sua vita personale): la sua storia. Quella di un regista, da un lato, e quella di un ragazzo – il racconto va dai sei ai diciotto anni – che è cresciuto tra difficoltà familiari ed episodi di emarginazione. Lo Spielberg bambino (che nel film diventa “Sammy”) non vuole andare al cinema: è la madre a tranquillizzarlo e ad assicurargli che i film “sono sogni indimenticabili” e che è emozionante scontrarsi anche con le paure, ed è il padre a descrivergli le “magie” della macchina da presa che fa muovere immagini fisse. C’è stato, quindi, un momento in cui è stato “iniziato” a quel mondo; o forse, lo leggiamo così perché conosciamo il finale della storia, ma si è trattato semplicemente di un modo (uno dei tanti che i genitori utilizzano) per stimolare i figli ad apprendere attraverso l’Arte. In ogni caso, il punto di inizio viene sancito lì, in quella sala, in un’età in cui si ha ancora “paura”. 

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A quel primo approccio seguono degli esperimenti: Spielberg si diletta a “dirigere” i suoi familiari, a coinvolgere amici e compagni di scuola in film amatoriali d’avventura. Si “esercita” anche ad avere il controllo su quello che produce, a mettersi alla prova, a sfidarsi con trucchi e nuove attrezzature. Inizia anche a scoprire quanto faccia “male” – su suggerimento/minaccia dello zio – ed è proprio attraverso il Cinema che si imbatte nei primi problemi. È, infatti, tramite uno dei suoi film che viene a conoscenza dell’infedeltà di sua madre. Quello che doveva essere un resoconto di un campeggio diventa un’occasione per mettere a fuoco una realtà ignorata, che la macchina da presa ha fatto emergere. È in quel momento, forse, che smette di vedere i genitori come “supereroi” e comincia a vederli come esseri umani comuni, che sbagliano e spesso non riescono a prevedere neppure le conseguenze delle loro azioni. “Non volevo una storia che fosse uno specchio delle vanità. Volevo piuttosto che fosse uno specchio comune nel quale molte famiglie avrebbero potuto vedersi riflesse. È un film sui figli e i genitori, sui fratelli, sul bullismo e su tutto quello che succede a ragazzi che bene o male hanno una famiglia capace di essere unita, anche quando non è più così unita”, ha raccontato il regista. “The Fabelmans”, quindi, non è un film autoreferenziale; non vuole celebrare i successi e la grandezza, ma raccontare quello che ha significato il Cinema nella vita di un ragazzo (e prima ancora di un bambino) che ha affrontato i suoi traumi e li ha persino filmati. Alle difficoltà familiari, si aggiungono, poi, quelle legate all’emarginazione: episodi di bullismo, discriminazioni religiose, delusioni sentimentali. Anche e soprattutto queste dinamiche hanno formato lo “sguardo” di Spielberg verso il Cinema; lo hanno orientato, anche nei momenti in cui non c’erano punti di riferimento. 

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Nella sua formazione ci sono Cecil B. DeMille e “Il più grande spettacolo del mondo”, i fratelli Lumière e “L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat” e naturalmente John Ford (interpretato da David Lynch, per ampliare, ancora, il discorso sul Cinema) che Spielberg incontra, ancora ragazzo, e da cui “impara a guardare l’orizzonte”. “The Fabelmans” è un raccoglitore di tutta la filmografia di un regista che ha trovato se stesso attraverso il Cinema e lo ha saputo raccontare al pubblico. “Non basta amare una cosa, bisogna sapersene prendere cura”, e Spielberg non solo l’ha compreso ancora giovanissimo ma l’ha messo in pratica, ponendolo come un obiettivo. 

“The Fabelmans” è un’opera commovente, in cui è possibile “osservare” più cose: ognuno troverà il “suo” Spielberg. Alcuni si soffermeranno solo sul Cinema, altri sul suo percorso di formazione o sulle prevaricazioni subite che hanno modificato il suo carattere. È tutto così reale, tangibile, spettacolare: Spielberg ci insegna a “guardare”, ancora una volta.