“LOST HIGHWAY”: DIFENDERE (ANCORA, VENTICINQUE ANNI DOPO) IL “DIRITTO” ALL’ALLUCINAZIONE

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di Mariantonietta Losanno

“Mi piace raccontare le cose come le ricordo, non necessariamente come sono”: Lynch parla attraverso i suoi personaggi e, ancora una volta, dà vita ad una visione, o a quella che potremmo definire una realtà “alterata”, astratta, sfuggente. Ma, d’altronde, il regista di Missoula ha – ormai – definito la sua “grammatica”, costruendo un’idea di Cinema che insiste sul valore del non-identificato e del non-detto. Che crea meraviglia e frustrazione, in un ciclo potenzialmente infinito. 

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Grazie alla Cineteca di Bologna e al suo progetto di distribuzione “Il Cinema Ritrovato”, la pellicola sarà nelle sale dal 16 al 18 gennaio, nel restauro in 4K realizzato da Criterion, con la supervisione dello stesso Lynch.

Se l’intento è quello di creare dei film che abbiano un impatto primordiale, allora è pienamente confermato, nonostante i venticinque anni dalla sua realizzazione. “Si può mantenere una struttura, ma bisognerebbe lasciare spazio al sogno. Se si resta fedeli alle proprie idee, il cinema diventa un processo sincero, un’esternazione. E se lo fai in questo modo, è probabile che la gente lo senta, anche se la storia è astratta”, ha “chiarito” il regista in un’intervista. Come molti altri precedenti lavori, “Lost Highway” si concentra sulla casa: una situazione domestica in un piccolo quartiere, in cui i suoni e gli spazi hanno un’importanza fondamentale. La pellicola sviluppa un complesso intreccio di mondi paralleli e di identità: il (primo) protagonista è il sassofonista Fred Madison, che riceve una misteriosa telefonata a casa (in cui si annuncia che “Dick Laurent è morto”), delle videocassette anonime nelle quali appare ripresa sia dall’esterno sia dall’interno la sua abitazione, e che fa la conoscenza di un misterioso individuo, che in qualche modo si prende gioco di lui. Sospetta che sua moglie Renée lo tradisca, e, mentre questo pensiero diventa assillante, in una delle videocassette si intravede una figura somigliante in tutto e per tutto a lei, brutalmente massacrata. Fred viene arrestato per omicidio e in carcere inizia a soffrire di una serie di terribili emicranie: al suo “posto” compare il meccanico Pete Dayton, incapace di spiegare per quale motivo sia finito in quella cella. La storia di Pete (secondo protagonista) prevede un’altra – o la stessa (?) – figura femminile, lo stesso misterioso uomo che, in qualche modo, lo deride, e dei fortissimi dolori alla testa che provocano allucinazioni. 

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Fissando questi punti (facendo in modo che siano di riferimento), si possono percorrere più strade. Si può assumere il punto di vista di un uomo (che sia Fred o Pete) che si ritrova in una situazione paradossale, che gli provoca una sorta di attacco di panico e che, nell’affrontare le conseguenze delle sue azioni, si distrugge. O immaginare che quello a cui si crede è l’opposto di quello che si è visto: i due uomini potrebbero non essere due persone distinte (e altrettanto le donne) e il personaggio misterioso potrebbe non essere reale e le sue parole potrebbero scaturire dalla manifestazione di un delirio. Ci si potrebbe, ancora, soffermare su quel “qualcosa di onirico” nelle parole “lost highway”, che, secondo Lynch, “evocano nella mente suggestioni di ogni genere” e che sono state (persino) il punto di partenza per la realizzazione del film. “Barry Gifford – autore di “Wild at Heart” (“Cuore selvaggio”) – aveva scritto un libro dal titolo “Gente di notte”, nel quale un personaggio usava l’espressione “lost highway”. Dissi a Barry che lo trovavo un titolo bellissimo e che avremmo dovuto scrivere qualcosa insieme, e lui accettò. Questo accadde più o meno un anno prima che iniziassimo effettivamente la sceneggiatura. Tuttavia, fu quell’espressione a far scoccare la scintilla”, ha raccontato Lynch. 

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Tutto può partire da due semplici parole che, accompagnate dalla musica (quella di David Bowie, di Marilyn Manson e dei Rammstein) danno forma ad un’idea, o ne creano una completamente differente. Follia, erotismo e delirio si fondono in una realtà che potrebbe essere (anche) tutto quello che non è. Ci si estranea immediatamente dalla propria dimensione per incontrarne un’altra, che può restare indefinita – così come avviene nell’immaginazione – facendosi forza proprio sulle sue lacune. Inoltre, la struttura circolare dell’opera (dal momento in cui l’inizio e la fine sono speculari) rimanda al cosiddetto “Nastro di Moebius”; all’idea, cioè, di una “strada” che possiamo percorrere all’infinito senza mai capire su quale delle sue parti stiamo camminando. Abbandonando le pretese di logica e leggibilità, le immagini che Lynch costruisce infondono fiducia, perché coerenti con la sua cifra stilistica, che è, invece, del tutto definita. È questo che spiega il suo essere anti-commerciale, distante dal bisogno di compiacere ed accontentare il suo pubblico.

L’unico augurio che possiamo fare è questo mistero continui a svilupparsi, (non) rispettando le sue regole, tornando costantemente al suo punto di partenza o cambiando totalmente “strada”. Perdendosi.