“LADY VENDETTA”: LA “DECISIONE” DI PERDONARSI PRIMA DI SOTTOPORSI AD UNA NUOVA MANIPOLAZIONE 

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di Mariantonietta Losanno 

Park Chan-wook sta occupando – prepotentemente, com’è nel suo stile – le sale cinematografiche italiane. E un po’ anche la Corea del Sud in generale. In attesa dell’uscita (la settimana prossima, 3 febbraio) del suo “Decision to leave”, film coraggioso perché guarda ad Hitchcock provando a reinventarlo, gli è stata dedicata una rassegna cominciata il 23 gennaio al Cinema Greenwich di Roma (e proseguita con Milano, Firenze, Torino, Genova, Napoli e Bologna, per ultima, il 5 febbraio) in cui sono stati selezionati, oltre ai cult “Mr. Vendetta”, “Old Boy”, “Lady Vendetta”, che compongono la “trilogia della vendetta”, anche “Thirst”, “I’m a Cyborg, But That’s Ok”, “Stoker” e il più recente “Mademoiselle”. Una predominanza di cinema sudcoreano garantita anche dal restauro della pellicola di Takashi Miike “Audition” (1999), proiettata nelle sale nel mese di gennaio, in una versione restaurata da Wanted. 

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È (ancora) una storia di perdono e vendetta quella di “Lady Vendetta”. Una donna, Lee Geum-ja, accusata di aver ucciso un bambino di sei anni (soffocandolo (!) è rimasta in carcere per tredici anni. E, conoscendo Park Chan-wook è facilmente ipotizzabile quello che può accadere quando si tiene rinchiusa una persona innocente per tanto tempo: c’è sicuramente un piano sadico di vendetta da mettere in atto. E così accade. Lee Geum-ja traccia un percorso da seguire, punendo non solo il colpevole che l’ha tenuta in carcere, ma anche tutti coloro che sono subentrati successivamente, quando era stata già “sedotta” dall’idea di vendicarsi. C’è un conflitto, però, tra l’obiettivo razionale prefissato e la moralità; non è una “decisione” (come la prossima di Park Chan-wook che vedremo nelle sale) che può prendere da sola, ma che merita di essere messa in discussione includendo tutti quelli che sono stati colpiti. Rintraccia, allora, tutti i genitori che hanno perso i loro figli a causa dello stesso uomo che l’ha portata ad assumersi colpe non sue e a privarsi di tredici anni della sua vita; organizza una sorta di “lezione” (sono tutti seduti ai banchi), procedendo prima con la visione di video e poi discutendone con loro. Mostra loro le immagini – insostenibili – dei loro figli, filmate prima che morissero, quando pregavano disperati di non essere uccisi. Poi, li pone di fronte ad una scelta: consegnare l’assassino alla polizia così che possa subire la punizione che merita, o farsi giustizia da soli, in modo equo, dando a ciascuno la possibilità di vendicare il proprio figlio. Si tratta di scegliere se restare umani o meno. Ognuno avrebbe un ordine di entrata e, naturalmente, bisognerebbe lasciare spazio a tutti, permettendo anche all’ultimo di poter prendere parte alla violenza. Ognuno avrebbe un “kit” da utilizzare, con armi e qualcosa per coprire i vestiti e non sporcarsi; ognuno di loro, quindi, potrebbe trasformarsi in un killer sapendo già di essere protetto da Lee Geum-ja e di non essere scoperto. Lo spettatore sente – inevitabilmente – di essere incluso in questa punizione collettiva. Sente la responsabilità, il dolore e incanala verso quell’uomo colpevole di aver torturato ed ucciso dei bambini ogni minima pulsione vendicativa personale. Park Chan-wook fa, infatti, leva sui punti di deboli, incattivendo non solo i suoi personaggi ma anche il suo pubblico, che prende parte attivamente al massacro. Come, infatti, ci si potrebbe sottrarre? Rifiutarsi di esporsi? Mettere a tacere i propri impulsi? 

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“Lady Vendetta”, rispetto ai suoi precedenti, è quello più fortemente “teatrale”; la narrazione, infatti, oltre ad essere divisa in atti, si svolge in luoghi che fungono da palcoscenici. La stessa Lee Geum-ja si prepara ogni volta che deve “entrare in scena” (in prigione, nel suo appartamento, nella pasticceria), struccandosi e togliendosi i “costumi di scena” solo quando lo spettacolo è finito. Chi vi doveva prendere parte l’ha fatto, chi doveva assistere ha assistito. Solo da quel momento in poi può sentirsi libera, godersi la neve che, in qualche modo, simboleggia la purezza. Esiste, quindi, una redenzione? Si può tornare alla vita dopo essere stata così tanto a contatto con la morte? 

“Come una gazzella che fugge dall’occhio del cacciatore, come un uccello che si libera dalla trappola o dalla gabbia, libera te stesso”, diceva Dae-su in “Old Boy”. Ma in “Lady Vendetta” il discorso si esaspera, trasformandosi in un processo di espiazione e purificazione. Come se la vendetta fosse necessaria a restituire candore e purezza. Lee Geum-ja si è servita dei sentimenti degli altri per ottenere quello che voleva? Ha realmente trovato quella redenzione che così ardentemente desiderava?