“SYNECDOCHE, NEW YORK”: IL TEATRO È “L’INIZIO DEL PENSIERO E LA VERITÀ ANCORA NON DETTA” 

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di Mariantonietta Losanno

“Per le tematiche che esploro in molti mi hanno avvicinato a Kafka e Borges. Non posso che esserne lusingato, dato che sono tra i miei autori preferiti. Oltre a loro mi viene in mente anche Philip K. Dick. In generale sono affascinato da tutti coloro che in qualche modo gravitano attorno alla scrittura surrealista e alle tematiche del paradosso: Samuel Beckett , Ionesco, ma anche i Monty Python, per esempio. Mi piacciono gli enigmi, i puzzle che in qualche modo riflettono la realtà dell’esperienza umana ed esplorano un panorama emozionale, interiore”, ha raccontato Charlie Kaufman sulla sua “Synecdoche, New York”. Opera prima testamentaria, che condensa i suoi temi e che, nel farlo, abbandona sin da subito compromessi e pretese di comprensione assoluta. 

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Caden Cotard è un regista teatrale. Vive insieme a sua moglie Adele  e sua figlia Olive, lotta costantemente con la sua ipocondria, frequenta una terapista cercando di risolvere i suoi problemi relazionali e le sue manie. Quel debole contatto con la realtà si spezza quando Adele decide di partire – portando con sé la bambina – per l’Europa senza lasciare più alcuna traccia. Nel frattempo Caden ottiene un premio – il MacArthur – e decide di lavorare ad un immenso spettacolo teatrale. La realizzazione di questo progetto procede di pari passo con la sua vita, e i confini dei due piani diventano sempre più opachi, difficili da distinguere e definire. Perché, secondo Caden “è il Teatro l’inizio del pensiero, la verità ancora non detta”: è il luogo da cui partire per potersi comprendere, ma non necessariamente per potersi “salvare”. Non c’è, anzi, nessun intento di volersi riconnettere alla realtà, riprendendone il controllo. Lo spettacolo è lo spazio in cui dare sfogo alle proprie frustrazioni ed allucinazioni. E per autodistruggersi. Mette insieme un gruppo di attori che dovranno interpretare la sua vita – tra cui, inevitabilmente, anche se stesso – e riproduce New York all’interno di un enorme spazio al coperto. 

La costruzione dell’opera e la distruzione della sua vita sono direttamente proporzionali. Più riesce ad analizzare la sua vita, ad osservarla dall’esterno, attraverso gli attori, più ne comprende l’essenza. E quello che pensava fosse una parte del tutto – come una sineddoche – diventa il tutto. La difficoltà di attribuire significato al fallimento del suo matrimonio, l’averne subito inerme la fine, fa sì che anche al “resto” non si riescano ad attribuire significati. Ed è proprio la realizzazione dello spettacolo a condurlo verso questa riflessione; l’occasione che aspettava da una vita, quella che avrebbe potuto dimostrare il suo talento (anche a sua moglie, restia a riconoscerlo), lo porta, invece, a rendersi conto di quanto sia tutto vano, inutile, vuoto. Su quel palco pieno di attori in realtà non c’è nessuno; ci sono solo le ossessioni di un uomo che restringe sempre di più la prospettiva, arrivando a perdere il proprio sguardo. 

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“Ognuno è tutti, la parte per il tutto”: Kaufman suggerisce – rifacendosi al significato della figura retorica della sineddoche – che, nell’esperienza di Caden, ci sia l’esperienza di tutti. Le specificità non contano. Quella solitudine e quell’ossessione possono essere estese a tutti, ma non come se non cambiasse nulla a seconda delle diversità del singolo; è la condizione in sé a poter essere “generalizzata”, non le singole reazioni e i diversi modi di adattarsi a quello stato mentale. Essendo partiti da questa premessa sin dal principio, viene da sé come il discorso non possa essere “catturato” completamente. Ma Kaufman sceglie di mettere in scena una verità – quella che il Teatro conosce ancora prima che venga detta – e di farlo in modo sì intellettuale (rifacendosi alla filosofia esistenzialista o rimandi cinematografici essenziali come, ad esempio, a Rainer Werner Fassbinder e al suo “Le lacrime amare di Petra von Kant”), ma anche abbracciando paranoia, tristezza, malinconia. Scegliendo la verità, appunto. Prendendo consapevolezza di quanto sia facile distruggere la propria vita ogni volta che lo scegliamo e come sia praticamente immediato che il mondo lo dimentichi. Caden acquisisce coscienza della propria caducità, inizia a “contare il tempo”, a rendersi conto di “non avere davanti l’eternità”, come gli ripeteva sua moglie. 

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“La luna oscura che illumina un mondo oscuro”: a Caden viene l’“illuminazione” – appunto – per il titolo del suo spettacolo solo alla fine. Quando è tutto dissolto. Charlie Kaufman maneggia con abilità la struttura spazio-temporale, riprendendo lo stesso modus operandi che ha caratterizzato le sceneggiature di “Eternal sunshine of the spotless mind” di Michel Gondry e “Essere John Malkovich” di Spike Jonze. Sa, quindi, come (non)muoversi nelle allucinazioni, creando una sensazione di straniamento e sviluppando la dimensione del vissuto onirico. Ed infatti “Synecdoche, New York”, è caratterizzato da una mancanza di linearità temporale; basti, ad esempio, pensare alle prime scene, in cui, mentre Caden legge sul giornale che Harold Pinter è morto è il 14 ottobre, ma la radio dice il 15, e poche pagine dopo, sfogliando il giornale, è il 17. Prendiamo parte, quindi, a frammenti, a ricostruzioni immaginarie o attinte da ricordi. Ma Caden ne è consapevole, e lo è anche lo spettatore: non si può portare sulla scena la vita nella sua interezza.