“BUSSANO ALLA PORTA”: SHYAMALAN SI MISURA CON I PREGIUDIZI, I SACRIFICI E LE INTRUSIONI (IL)LEGITTIME 

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di Mariantonietta Losanno 

Se ne possono trovare tanti di riferimenti cinematografici nell’ultima opera di M. Night Shyamalan, più o meno consapevoli. Tra i più immediati – in chiave horror/grottesco – sicuramente Jordan Peele, che in “Us” aveva sfruttato il tema dell’invasione degli spazi domestici e familiari per suggerire una riflessione (anche sarcastica, in una maniera che Shyamalan conosce bene) sul ruolo di ognuno di noi in quanto cittadini, riallacciandosi all’iniziativa di benedica “Hand Across America”. Ma ci sono anche, tra le citazioni più palesi, Michael Haneke e il suo sadico esperimento “Funny Games”, o Darren Aronofsky e l’infinitamente allegorico – e snervante –  “Madre!”. E, ancora, “Knock Knock” di Eli Roth, e, inevitabilmente, “Il sacrificio del cervo sacro” di Yorgos Lanthimos. Sono tutti richiami che Shyamalan conosce e di cui si serve, in qualche modo, per sviluppare il suo discorso, trovando subito un’altra strada, anche se non è quella di fuga. 

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Ci eravamo lasciati con “Old” e, quindi, con una serie di riserve che, però, non posso inficiare la visione di un’opera successiva. E su questo Shyamalan insiste, soffermandosi a lungo su quello che i pregiudizi hanno il potere di fare e cosa comporta subirne, che tipo di trasformazioni psichiche e fisiche possono scaturirne, che deliri possono emergere. “Bussano alla porta” racconta la storia di una famiglia che viene inspiegabilmente “disturbata” (perché presa di mira?!) da quattro sconosciuti che chiedono di entrare in casa per chiedere loro di prendere una decisione che sarà decisiva per tutti. Eppure, nonostante siano estranei e vogliano a tutti i costi invadere gli spazi domestici, non sembrano pericolosi. Prima di bussare alla porta uno di loro prova a parlare a Wen, la figlia di Andrew e Eric, spiegandole di non avere cattive intenzioni e di volere, anzi, esserle amico. Sono armati, ma ancora, nonostante questo, non sembrano cattivi. In un modo o in un altro, però, devono entrare, perché quello che devono chiedere è un qualcosa che hai dei tempi stretti e non può essere rimandato. Da Andrew, Eric e Wen dipendono le sorti di tutti: l’Apocalisse imminente potrà essere evitata solo se uno di loro tre si sacrificherà. Se non lo faranno, il resto dell’umanità morirà. 

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La scelta, quindi, è quella di immolarsi per salvare tutti gli altri. Ma tutti gli altri chi?! Le stesse persone che hanno deriso, torturato, picchiato Andrew e Eric per il fatto di essere omosessuali? Quello che propone Shyamalan, allora, è un dilemma che si dirama in più direzioni. Empatia e tolleranza: il “leader degli intrusi” sottolinea l’importanza di queste parole, tentando di convincere la famiglia che ha di fronte a prendere la decisione giusta, che eviti l’orrore e la distruzione. Ma questo non serve ad impedire che i due pensino di essere stati presi di mira perché gay, perché è quello a cui sono abituati da sempre. Il regista focalizza l’attenzione su questo aspetto, non facendo, però, in modo che diventi assoluto o che si trasformi un’occasione (esasperante ed esasperata) per sviluppare un dibattito sterile sull’omofobia. È un discorso più ampio e complesso. E Shyamalan sa bene come dosare gli ingredienti, come servirsi del suo sarcasmo (basti pensare al suo cameo), come raccontare l’attualità (portando, all’interno della narrazione, anche argomenti come virus, quarantene, lockdown), come far “luce” (elemento essenziale all’interno della storia) su alcuni aspetti dell’umanità, senza eccessiva retorica. 

Lontano dal compimento nell’osservare e schernire il suo pubblico che aveva contraddistinto “Old”, in “Bussano alla porta” c’è un bisogno di raccontare le paure, quelle che attanagliano “tutti”, e che, nonostante il contesto surreale (ma neppure troppo) lo spettatore riesce a condividere; la fiducia, concetto complesso in una società in cui vigono egoismo e diffidenza; la lealtà verso la famiglia, il rispetto, gli stereotipi e i facili perbenismi. Temi che Shyamalan sviscera, come se fosse una “missione”, la stessa che è stata affidata – e non per punizione, come credono – ad Andrew ed Eric. Malevolenza, accudimento, cura e guida: i quattro estranei “invasori” hanno queste caratteristiche, sintesi efficace di tutti gli aspetti dell’umanità. Convivono, allora, giustizia e malvagità? E se fosse “giusto”? Se, abbandonando – ancora – la retorica omosessuale, ci soffermassimo su quanto sia necessario che in ognuno di noi coesistano questi aspetti? Non negli eccessi, naturalmente. Ma intendendo la “malevolenza” non come odio ma come una “sana ostilità” che protegge e che aiuta ad orientarsi. In questa accezione, allora, diventerebbe persino “giusto”. Shyamalan non ha sicuramente bisogno di definire il Bene e il Male, e tantomeno può essere una pretesa di chi assiste. Ci sono, però, delle interessanti riflessioni sul legame tra virtù e peccato: un binomio che accomuna tutti, senza discriminazioni.