“NIMIC”: DALL’IMMAGINE ALL’IMMAGINARIO, VERSO LA SPERSONALIZZAZIONE DEL SÉ

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di Mariantonietta Losanno 

Undici minuti che condensano una riflessione tanto esistenziale quanto politica sull’uomo, sul suo ruolo all’interno della famiglia – intesa come istituzione – e sulla sua identità tanto fragile quanto sostituibile.  

Matt Dillon interpreta un violinista che, in viaggio in metropolitana, si “scambia” con una sconosciuta. È una frase (una delle poche dell’intero corto, basato su una carenza di comunicazione verbale) a muovere le fila del discorso: “Do you have the time?”, tradotta come “Hai il tempo?”, non “Che ora è?”. Che può essere inteso come un tempo per assumere – sostituendo – un’altra identità e per constatare come sia immediata questa nuova acquisizione di status. Perché è semplice dire le stesse cose, ripetere quotidianamente e metodicamente le stesse azioni, condurre lo stesso lavoro. Persino amare le stesse persone. Ed è vero anche – a conferma di quanto appena detto – che quello di Lanthimos si presenta come un Cinema di futuri prossimi, di laboratori sociali, di esperimenti crudeli. Un Cinema che penetra nei personaggi quanto negli spettatori, invadendo ogni spazio privato e scoprendo ogni più recondita paura. Ed è, inoltre, una costante che si presenta spesso nei suoi film quella dell’elemento estraneo che, non solo rompe gli equilibri, ma assolve un compito prestabilito. Questa missione da adempiere riguarda – sempre – una privazione dell’identità, per far sì che i personaggi diventino pedine (o marionette, forse è il termine più adatto) facilmente manovrabili. Tutto questo per soddisfare un unico e sadico scopo: rendere chiara la semplicità di questa manipolazione. 

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In Dogtooth e ne Il sacrificio del cervo sacro erano due presenze esterne – appunto – a far emergere questa “verità”: nella prima pellicola si tratta di una sorta di “educatrice” che, penetrando in una casa dalle sembianze di una prigione, apporta un segmento di realtà; nella seconda è un ospite che vuole offrire – a caro prezzo – redenzione. Negli undici minuti di Nimic è un’unica persona che, però, potrebbe essere chiunque altro. Una sola persona o infinite altre: siamo realmente capaci solo di replicare gesti, interpretare ruoli, fingere? L’uomo di Lanthimos è svuotato di tutto, incapace di assumersi responsabilità o di prendere decisioni, inadatto a manovrare il suo Tempo e il suo Spazio. Non rimane nulla, allora, di un individuo che può – così facilmente – sgretolarsi in un altro. In questo loop senza fine non restano tracce, non rimane nulla. “Nimic”, appunto. E se, proseguendo con la riflessione che suggerisce il regista, questo Nulla fosse realmente dentro di noi? Intrappolato, radicato, interiorizzato. Ed è paradossale come questo ragionamento venga espresso in soli undici minuti. 

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Nonostante ci muoviamo in un universo di eccessi, la presa di coscienza di Lanthimos – maturata nel corso della sua intera filmografia – ha una sua concretezza. Non è così semplice sostenere di possedere il proprio Tempo: siamo realmente sicuri di essere noi stessi a manovrarlo? Se arrivasse qualcuno, chiunque esso sia, e iniziasse ad emulare le nostre stesse movenze (“incastrandosi” perfettamente), le nostre stesse parole e i nostri pensieri come potremmo preservare la nostra identità? Qual è quell’elemento inattaccabile che tutela la nostra persona? Quel gesto che appartiene solo a noi e che nessuno può compiere nel medesimo modo?

“Nimic”, che sta a voler dire anche “inamic”, cioè “nemico”, o “mimic”, cioè imitatore. Oppure, ancora, “ne+mica”, anagramma di cinema. Sono tanti gli spunti da cui partire, e sono altrettanti i vuoti in cui specchiarsi.