“LA TERRA DI DIO”: EVOLVERSI O RIPETERSI?

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di Mariantonietta Losanno 

“Non dovevi venire, non sono io la soluzione”, dice Georghe a Johnny. Proviamo a partire dalla fine – sovvertendo le regole della narrazione – per analizzare il primo lungometraggio di Francis Lee, ambientato nel West Yorkshire. Ci sono più percorsi educativi all’interno della storia: troviamo, infatti, Johnny che – parallelamente – impara a prendersi cura della fattoria di suo padre e ad instaurare un rapporto con la sua famiglia in cui esista dialogo e comunicazione, e prova ad avvicinarsi all’amore, tra resistenze e paure. L’arrivo di Georghe gli impone (senza forzare la mano) di analizzare i suoi limiti, e di prendere una decisione: evolversi o ripetersi?  

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L’esito di questo percorso non è la soluzione. O meglio, non ne esiste solo una. Johnny ha sempre reagito alla frustrazione ricorrendo all’alcool, ai rapporti occasionali e ai gesti – spesso volgari – che hanno sostituito le parole. La prima volta che riesce a parlare è proprio grazie a Georghe che, per abbattere le sue difese, fa per primo un passo avanti, iniziando a raccontarsi. Al primo stimolo non segue nessuna risposta, ma al secondo sì. I due iniziano ad avvicinarsi, senza bisogno di ricorrere alla violenza per dissimulare il timore di sentirsi vulnerabili. Entrambi abituati ad avere a che fare con gli animali, ne hanno assorbito tratti differenti: Johnny si nasconde dietro il suo atteggiamento rude (da duro, o meglio da bestia), Georghe interiorizza la cura e la dedizione del prendersi cura di loro, soprattutto dei più deboli. C’è un momento in cui ci si sente in grado di accertarsi e perdonarsi, in cui si smette di fuggire dalle parti peggiori di sé provando a domarle (come si fa con gli animali) e ad assumere il controllo. È in quel momento, allora, che non si arriva ad una soluzione, ma ad una consapevolezza: quella di smetterla di usare male il dolore, facendo sì che diventi veleno per avvelenare gli altri e smetterla di vedere la vita come un bersaglio da colpire. Perché il bene c’è ancora, resiste. Ma non va portato allo sfinimento. Ed è così che Johnny comprende di dover portare a termine quel percorso di autoanalisi (iniziato inconsciamente) e di dover rendere partecipi tutte le persone coinvolte. Quelle che scambia con suo padre sono le parole più semplici e vitali che si possano mai pronunciare (come “grazie” o “scusa”), accompagnate da sincere confessioni accettate senza sforzo, con amore. 

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Eludendo l’idillio omosessuale e fuggendo i suoi cliché (allontanandosi, quindi, dal riferimento più immediato a Chiamami col tuo nome), la pellicola di Francis Lee si concede libertà, annullando dubbi, insicurezze, negatività e ansia. Consente al pubblico di conquistare un senso di completezza indescrivibile, disarmante, necessario. 

Evolversi o ripetersi: la scelta è tra accettare se stessi e scoprirsi o continuare a fuggire e a restare succubi di meccanismi autodistruttivi.