“CORPO CELESTE”: ESERCIZI DI SPIRITUALITÀ NELL’OPERA PRIMA DI ALICE ROHRWACHER 

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di Mariantonietta Losanno 

Non è un’indagine né sul Bene, inteso come infinito nello spazio e somma di ogni bontà, come l’ineffabile, il certo e l’appagamento continuo di sé che non ha fine; né sul Male, concepito come il contrario, il dolore, quella che Alice Rohrwacher compie con Corpo Celeste – ispirato, solo nel titolo, all’omonimo libro di Anna Maria Ortese – al suo esordio alla regia. È, piuttosto, l’inizio di una riflessione (complessa) su temi (altrettanto complessi) che svilupperà attraverso la sua filmografia; è l’introduzione di un linguaggio che è in grado di penetrare nel buio e nell’incertezza e che non va mai alla ricerca di posizioni orgogliosamente definitive. Ed è l’espressione di un Cinema che chiede “fiducia” – come un atto di fede – e che guarda coraggiosamente a modelli come Wim Wenders (soprattutto per Il cielo sopra Berlino e Così lontano così vicino), i fratelli Dardenne e – forse – anche a Terrence Malick e alle sue “vite nascoste”. Un Cinema che chiede di porsi in ascolto, pur avendo gli occhi bendati, imparando a “sintonizzarsi” – più che a sentire – in modo differente. 

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Protagonista della sua prima indagine è Marta, una ragazzina di tredici anni che è tornata a vivere nella città dove è nata (Reggio Calabria), dopo aver trascorso dieci anni in Svizzera. Insieme a lei ci sono sua madre e sua sorella maggiore, con cui si scontra spesso. Inizia a frequentare il catechismo (perché ha l’età giusta per la Cresima) e conosce una realtà che le sembra estranea, in cui non trova facilmente punti di riferimento. Si sente disorientata tra idee inculcate senza approfondire il significato e l’origine e prospettive di carriera politica di un parroco interessato al suo tornaconto. È da sola, quindi, e per certi versi persa, in una fase della sua vita in cui tenta di comprendere il rapporto con il proprio corpo (e con quello di Dio, che, come le viene spiegato «è diverso dal nostro, è un corpo spirituale, celestiale, santo»), e con la sessualità, vissuta come spasmodica ricerca di una completezza e di un’unità. A Marta viene imposto di credere non avendo ancora consapevolezza del valore della parola: «Credo, credo, credo!», le viene intimato di ripetere, come se non avesse altra alternativa, come se non avesse tempo per potersi costruire una propria idea di credenza e dei possibili destinatari di questo sentimento. La città dove è nata la ingloba totalmente, senza consentirle di (ri)abituarsi, di sentirsi parte di quel mondo che non ha conosciuto per dieci anni, che – avendone appena tredici – sono tutta la sua vita. Marta si adegua, un po’ per paura, un po’ perché non ha ancora la forza per porsi interrogativi tanto più grandi di lei (non si fa proprio accenno, ad esempio, al padre, che rimane una figura misteriosa) e che non saprebbe come “gestire”. 

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La Cresima si presenta come una “battaglia spirituale”, caratterizzata da alcune “prove” (alcune piuttosto macabre) che deve superare per potersi sentire degna di accedere a quel sacramento. Senza averne neppure cognizione. Deve accettare “schiaffi simbolici”, test di fiducia e di coraggio (?), senza ricevere in cambio né spiegazioni né chiarimenti. Affidandosi, arrendendosi. Anche Alice Rohrwacher insegue la sua protagonista, senza lasciarle spazio e respiro, dimostrando – sin dal principio – una predisposizione documentarista e un’attenzione particolare verso una narrazione viscerale, talmente vicina ai suoi personaggi da assorbirli. Delicatamente, poi, mette in discussione – senza aprire mai un dibattito – argomenti spinosi, come (da un lato) la cecità religiosa e (dall’altro) la piena visione egoistica delle proprie necessità. Due atteggiamenti che abbiamo visto assumere da parte della Chiesa, nonostante questa non sia la sede per affrontare le modalità in cui ha agito. È essenziale restare in ascolto, senza dare necessariamente un senso a tutte le luci e a tutte le ombre: rimanere “in bilico”, allontanandosi da schemi pre-esistenti e indottrinati o insegnamenti vuoti. 

«Non siamo il messaggio, siamo i messaggeri», recita Otto Sander in Così lontano così vicino. Ascoltiamoli.