“LE DÉPART”, JERZY SKOLIMOWSKI: DIARIO DI UN LADRO…DI AUTO 

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di Mariantonietta Losanno 

Nell’opera minimalista di Bresson – Diario di un ladro – Michel (Martin LaSalle) legge le sue confessioni: il borseggio viene descritto come una manifestazione di astuzia e abilità, una possibilità di placare il tormento interiore. Il suo modo di auto-affermarsi. Dopo diversi furti, però, viene catturato dalla polizia e, trovandosi in carcere, si rende conto che l’amore che prova per una ragazza può dare realmente un senso alla sua esistenza. Questa presa di coscienza (ci) ricorda quella di Marc (Jean-Pierre Léaud) ne Le Départ – tradotto infelicemente ne Il vergine – la cui ossessione sono le auto. In questo caso non c’è un diario, ma è come se si prendesse parte ad un flusso libero di pensieri reso ancora più evidente dalla scelta di rimuovere tutto il superfluo; un tratto, quest’ultimo, che ci riporta (ancora) a Bresson e al suo rigore depurativo. 

Ci sono le auto, i movimenti concitati di Marc e la colonna sonora di Krzysztof Komeda a “riempire” il racconto di Skolimowski, girato in Belgio, per il timore di incorrere nella censura polacca. Pochi ingredienti (volutamente) essenziali: bastano “mani, oggetti e sguardi”, ha detto Bresson sul suo Pickpocket. Lontani dal volerla far diventare un’ossessione, questa associazione tra Skolimowski e il regista de Le diable probablement, è stata (ri)affermata in relazione a EO, ultimo lungometraggio del regista polacco presentato al 75º Festival di Cannes (dove ha vinto anche il premio della giuria), omaggio a Au Hasard Balthazar di Bresson. C’è, poi, l’immediato riferimento al cinema di Jean-Luc Godard e di François Truffaut (potremmo anche scrivere “vs” al posto della congiunzione “e”, dal momento in cui sono stati amici fino a un certo punto), sia per la presenza di Jean-Pierre Léaud che per l’intento di aderire – sintetizzando le posizioni di entrambi – ad un movimento reazionario, il più possibile vicino alla vita vera e a metà tra una critica sociale e una critica esistenziale. Skolimowski assorbe dai suoi modelli e aggiunge una personale componente “anarchica” che trova compiutezza in provocazioni (come quando, tra i vari strattonamenti che subisce, Marc risponde agli schiaffi di Michèle, interpretata da Catherine Duport) e nevrosi di varia natura. Jean-Pierre Léaud lavora sulle espressioni facciali, al punto da rendere quasi eccedenti i dialoghi (potrebbe essere persino un film muto): la “follia” è raccontata dai bronci e dai sorrisi, dai gesti ossessivi e da una sfacciataggine che si scontra con un’insicurezza profonda. Cos’è più importante delle auto? Della velocità, delle corse, dei sorpassi? Persino il primo appuntamento con Michèle avviene in un’auto, addirittura nel bagagliaio. Che follia. Eppure, è una follia “credibile” nel suo essere esuberante, assurda, libera. 

%name “LE DÉPART”, JERZY SKOLIMOWSKI: DIARIO DI UN LADRO…DI AUTO Il titolo originale, tradotto letteralmente ne “La partenza”, allude al principio di un percorso di maturazione (proprio come se fosse il “via” che si dà prima di una gara) di un ragazzo appena ventenne, che lavora come assistente di un parrucchiere e che, nonostante si sia così intestardito, non sa neppure lui ancora perché nello specifico le auto debbano essere la fonte della sua ossessione. E proprio come quando si dà il segnale di avvio in una gara di corsa, è incerto, per certi versi goffo, disattento. Invece Skolimowski è lucido, simula una leggerezza che, in realtà, è espressione di altro. C’è da investigare, imparando a distinguere cioè che è essenziale da ciò che non lo è.