DON MILANI, ISTRUZIONI PER L’USO

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   –   di Vincenzo D’Anna*   –       

È da poco stato celebrato il centenario della nascita di Lorenzo Milani, il sacerdote e pedagogo che diede vita alla scuola di Barbiana, frazione del piccolo Comune di Vicchio in provincia di Firenze. Lo avevano spedito in quell’angolo di mondo, perso tra i colli toscani, perché in odore di “eresia socialista”, per il suo modo di intendere la carità e l’allergia che aveva nei confronti dell’obbedienza gerarchica. Uno spirito libero ed una mente critica che non deviò mai dalla sua missione pastorale né dall’umiltà con la quale la realizzava. Anche in condizioni disagiate, in un luogo che offriva poco o nulla, seppe edificare una scuola privata per educare i figli dei contadini e delle classi più povere con il rigore e l’applicazione quotidiana. Tuttavia la lezione pedagogica di don Milani è stata più volte male intesa e piegata, per le necessità del caso, a puntellare una visione della missione della scuola pubblica che non corrisponde correttamente all’essenza dell’esperienza del sacerdote fiorentino. Innanzitutto egli pretendeva lo studio, serio ed impegnativo, dai suoi allievi, perché solo attraverso il sapere e la cultura questi avrebbero potuto riscattare l’essere nati socialmente “svantaggiati”. Non fare parti eguali tra diseguali è la più grande delle ingiustizie, affermava don Lorenzo, ma lo intendeva sul piano delle opportunità che si dovevano garantire a tutti i ragazzi, non su quello della massificazione acritica dei medesimi. Tuttavia la vera natura dei suoi insegnamenti si è utilizzata per  una scuola destrutturata, lontana dalla missione dell’istruzione e dell’educazione, nella quale la didattica stessa è stata subordinata ad un principio estraneo all’istituzione medesima, ossia quello della parificazione e dell’accoglienza sociale. Insomma, una scuola che ha abbassato i livelli qualitativi e quantitativi dell’insegnamento, cancellando meriti, capacità ed inclinazioni, fino a bollare questi valori come parametri classisti e divisivi. In sintesi: meglio una classe di alunni omologati e semi-analfabeti che una scolaresca ove, attraverso la selezione meritocratica, ci siano fisiologicamente i più bravi ed i meno bravi, confondendo quel che si deve come sostegno ai meno abbienti (in termini di sussidi ed aiuti) per poter ottenere l’uguaglianza delle opportunità, con quella degli esiti. Si realizza in tal modo una sufficienza generalizzata, derivata dall’abbassamento dei saperi richiesti per raggiungere quel minimo livello di istruzione. Un danno gravissimo inflitto proprio ai meno abbienti che hanno solo la scuola pubblica e gratuita da poter frequentare per emergere, senza quelle alternative garantite a chi gode di una condizione sociale più agiata. Una scuola siffatta risulta un po’ comoda a tutti: ai docenti ed ai genitori, in quanto più semplice e meno faticosa. Ci siamo ritrovati così un’istituzione minimale, nella quale lo scopo ultimo diventa segare le eccellenze per favorire l’omogeneità dei risultati e l’aggancio da parte di tutti ad una minimale conoscenza, una sufficiente mediocrità. Quest’ultima non servirà certo ai più poveri per emergere, nel mentre sarà facilmente integrata con lezioni private ed altri ausili dagli studenti più ricchi. Nella sua celebre “Lettera ad una professoressa” don Lorenzo Milani scrisse che “il sapere serve solo per darlo”. Ergo, ogni dovuto aiuto ai meno abbienti doveva essere finalizzato al raggiungimento di buoni livelli d’istruzione, non ad altro. Gli allievi della Scuola di Barbiana studiavano otto ore al giorno: solo una scuola gratuita, seria, meritocratica, dedita all’insegnamento poteva rappresentare l’unica vera chance per coloro che sono bravi ed intelligenti, in grado di andare avanti pur essendo nati indietro. Quando don Milani scriveva che “l’obbedienza non è più una virtù” non intendeva dire che si dovessero abbassare le cattedre e parificare i ruoli tra chi insegna e chi impara. Oggi con i famigerati decreti delegati, forma demagogica di gestione pseudo collettiva della scuola, non sono pochi i casi in cui i docenti finiscono in balia degli studenti, della loro violenza, delle minacce, oltre che dell’invadenza dei genitori che pretendono che il “cocco di mamma” sia trattato come un piccolo lord, riverito e promosso, anche se gli spunta la coda dai pantaloni. Infine la politica, che il priore di Barbiana insegnava ai ragazzi facendo leggere e commentare sui giornali i fatti del mondo: non un indottrinamento ma insegnare allo scolaro a divenire, in futuro, un cittadino responsabile e partecipe. Era pertanto necessario che i ragazzi conoscessero le istituzioni, la struttura dello Stato democratico, la Costituzione Repubblicana, gli scopi stessi dell’agire politico per poter decidere in futuro come componente del popolo sovrano. In sostanza: essere consapevoli dei diritti di cui si è portatori e del dovere di saper coniugare la libertà alla responsabilità. Don Lorenzo scriveva “i miei problemi sono gli stessi degli altri. Sortirne da soli è l’egoismo, sortirne tutti è la politica” In questo senso esortava i propri scolari ad interessarsi, informarsi, oppure partecipare alla vita politica e sociale. Aver cancellato del tutto la scuola di Giovanni Gentile, con il suo carico di nozioni e la gerarchica obbedienza, si è rivelato un clamoroso errore. Scontiamo un diffuso analfabetismo funzionale, un disinteresse verso la cultura, che è figlio di una scuola scadente e che certo non si ripara mistificando il messaggio del prete toscano. Eppure costui ci aveva in qualche modo ammoniti: “se non direte cose che spiaceranno a qualcuno non avrete mai detto la verità”. Non sarà semplice ritrovarla quella verità in un mondo ove le comodità dei docenti, le pretese dei discenti e le ingerenze politiche la fanno sempre più da padrone.

*già parlamentare