“CAMERA”, DAVID CRONENBERG: QUELLO CHE AVVELENA E QUELLO CHE RENDE ETERNI 

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di Mariantonietta Losanno 

«La morte è uno spreco non necessario»: lo ha detto Peter Greenaway alla 79ª edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Una riflessione interessante, in contraddizione (apparentemente) con la presa di posizione di David Cronenberg che, rispetto al tema, sembra aver sviluppato una vera e propria ossessione. Camera è un cortometraggio presentato in occasione del 25º festival del cinema di Toronto, prima dell’apertura dell’evento. Si tratta di sei minuti in cui si riflette – insieme – sul ruolo del cinema (e sui possibili rischi di avvelenamento?), dell’attore/uomo e di astrazioni da tradurre in realtà e viceversa. Insomma, ci sono i soliti ingredienti di Cronenberg, caratterizzati da una malinconia che abbandona – ogni tanto – i tanto cari temi della violenza, delle mutazioni, della “carne”. C’è il rischio di banalizzare a parlarne così, ma è difficile fare una sintesi chiara di quello che è (sempre) stato questo tipo di Cinema. In Camera c’è un sentimento di arrendevolezza, che ci riporta ad un altro corto, ancora più recente – e di soli cinquantasei secondi – dal titolo The Death of David Cronenberg. Sì, è a tutti gli effetti una “prova” della sua morte. Un’anticipazione di quello che significherà poi – un giorno – “abbracciarla” realmente. 

L’uomo che (ci) parla (Leslie Carlson) si concede un momento per ricordare la sua carriera; racconta dei tanti anni anni di lavoro, del suo essere stato ed essere ancora oggi un attore. E descrive le sensazioni contrastanti scaturite dell’avere in casa una videocamera. Sono stati dei bambini a trovarla e, fieri della loro scoperta, hanno iniziato a giocare con gli strumenti che hanno reperito e con la cinepresa stessa. Più loro si innamorano del “tesoro” scovato, più la presenza dell’attore diventa superflua, persino nociva. Ci sono, infatti, da un lato i bambini che vengono “iniziati” al fascino di questo aggeggio, dall’altro l’attore che ne conosce i limiti e gli effetti collaterali. Sa in che modo, cioè, è in grado di avvelenare e ammal(i)are chiunque le si avvicini troppo. «Quando registri un momento, ne registri la morte», dice, come se il suo potere fosse (solo) quello di constatare la fine, lasciando ai posteri un’immagine che non cambia mai e che riporta continuamente ad una rassegnata presa di coscienza. La memoria e l’invecchiamento per l’attore non sono astrazioni, sono cose reali come guardarsi allo specchio; più si trova di fronte ad una videocamera, più realizza di avvicinarsi alla morte, come se non avesse spazio per illudersi di avere più tempo. La videocamera (ci) avvelena: come sfuggirle? In nessun modo, e al tempo stesso in tutti i modi possibili. 

%name “CAMERA”, DAVID CRONENBERG: QUELLO CHE AVVELENA E QUELLO CHE RENDE ETERNI Avere quel “fantoccio ridicolo” in casa permette all’attore di raccontare anche un sogno, nel quale era al cinema a guardare un film con altri spettatori. Proprio in quel momento ha realizzato di stare invecchiando rapidamente: era il film a fare questo, come una malattia che avvicina incontrovertibilmente alla morte. È davvero questo che è in grado di fare il Cinema? Poi, però, l’attore propone un’alternativa – più rassicurante – soffermandosi a pensare ad un modo per la videocamera e l’uomo per invecchiare insieme, come una di quelle coppie litigiose che non perdono occasione per scontrarsi per ogni minima cosa. La tristezza, allora, può lasciare il posto ad una malinconia serena e pura. Pura come l’innocenza dei bambini di cui Cronenberg si “serve” per condurre una riflessione sulla morte: due cose che, insieme, in realtà non stanno poi così bene. O forse sì, sovvertendo l’ordine di tutto. 

Che poi, cosa saremmo Se durassimo in eterno, rifacendoci a Bertolt Brecht?