ANALOGIE, DIFFERENZE NELLA GERMANIA PRIMA DELLA CADUTA DEL MURO “CAFÉ MÜLLER” E “ALLEE DER KOSMONAUTEN” 

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di Mariantonietta Losanno

%name ANALOGIE, DIFFERENZE NELLA GERMANIA PRIMA DELLA CADUTA DEL MURO “CAFÉ MÜLLER” E “ALLEE DER KOSMONAUTEN” Ritmo emotivo vs ritmo frenetico: “Allee der Kosmonauten” e “Café Müller” si sviluppano in un tempo e in uno spazio diversi; due coreografie che condividono, sicuramente, una sensazione di oppressione, indagata attraverso strumenti e dialoghi che, se in alcuni momenti convergono, in altre di discostano completamente.

Sono prima di tutto le due artiste a divergere. Per Pina Bausch, è fondamentale il rapporto tra corpo e oggetto: non si cerca più di negare le potenzialità emotive della ripetizione. Il suo è un contesto – gli anni Settanta – in cui la danza è in piena rivoluzione, in cui l’attenzione è focalizzata sull’atto creativo, sui corpi e sulle loro capacità di resistenza. Sasha Waltz nasce nel 1963 e, dopo aver vissuto la scena postmoderna newyorkese, sviluppa – nei primi anni Novanta – il progetto/formato “Dialoge”, basato sul dialogo tra discipline e sull’improvvisazione. La sua è una ricerca incentrata sulla scoperta di “nuovi spazi”, con un diverso obiettivo rispetto alla Bausch: mettere in discussione il linguaggio della danza insieme ad altri strumenti comunicativi, non aderendo necessariamente ad una tecnica ben specifica. Uno stile nuovo e non catalogabile.

I sei protagonisti di “Café Müller” portano in scena le loro fragilità; esprimono, lasciando che si liberi, il proprio inconscio. Lasciano che la disperazione si manifesti, per far sì che non diventi, poi, un’angoscia insostenibile. I tre ballerini principali ballano ad occhi chiusi, affidandosi l’uno all’altro e trasmettendo, allo spettatore, una stessa sensazione di fiducia. Come se ci sentisse autorizzati a lasciarsi andare, a mostrarsi imperfetti. C’è piena libertà di spogliarsi da quei fantasmi identitari che, in qualche modo, “chiudono” e connotano. Gli spazi vengono percepiti grazie alle energie dei protagonisti che danzano su un palco in penombra in cui sono presenti sedie, tavoli e tre porte (una a sinistra, una a destra e una in fondo a sinistra del palco). Nonostante il luogo sembri anonimo, trasmette una sensazione di familiarità: c’è, infatti, un’ambiguità tra il “dentro” e il “fuori”, tra il pubblico e il privato. La scena non ha un’identità precisa (ricorda, infatti, una scenografia di un teatro di posa tradizionale), così come non esiste una vera e propria narrazione. La musica classica quasi tragica si alterna ad un uso funzionale e protratto del silenzio.

Ad emergere è l’incomunicabilità, “sconfitta”, però, senza bisogno di parole. I protagonisti si sostengono e si abbandonano. Scivolano l’uno nelle mani dell’altro in un movimento che sembra voler proteggere e non distruggere.

Si lascia spazio ad una dimensione emotiva, ad un racconto più libero (così come è libera, ad esempio, la pittura che arriva dall’astrazione) e “snodato”; si insegue il tentativo di dare senso al non costruito, di recuperare il significato delle componenti accidentali, dei tempi morti, degli elementi casuali.

Così come vedremo in “Allee der Kosmonauten”, anche in “Café Müller” i corpi sono costretti, in qualche modo delimitati, dalle sedie che riempiono gli spazi vuoti. Come se si avesse bisogno di riempirli. Disposte in quel modo, infatti, delimitano una sorta di perimetro in cui i protagonisti danzano, riuscendo, però, a sfuggire alla demarcazione. La caratterizzazione dei personaggi è complessa, come a voler suggerire che non debbano rappresentare un “tipo”, ma piuttosto adattarsi alle possibili declinazioni di ognuno di noi. I vestiti utilizzati, infatti, sono di uso quotidiano e di colori neutri, come se si volesse insistere sulla spontaneità della messa in scena mai formale. Pina Bausch mette in scena la sensualità in modo diverso; le sottovesti delle donne, ad esempio, rappresentano un erotismo suggerito che non sfocia nella violenza di Sasha Waltz. Oltre all’incomunicabilità si avverte l’esasperazione (che ritroveremo in “Allee der Kosmonauten”): i movimenti vengono costantemente ripetuti e, in alcuni casi, da fluidi diventano meccanici.

Il centro della messa in scena della coreografia di Sasha Waltz è un salotto di un appartamento a Berlino, situato nell’Allee der Kosmonauten (Viale dei cosmonauti), in cui una famiglia qualsiasi vive la propria quotidianità. I corpi sono “costretti”: i protagonisti (grotteschi) sfogano le loro diverse frustrazioni – declinate secondo le loro differenze generazionali – costruendo un andamento ipnotico e esasperato, in cui non sembra ci sia una via di fuga. Gli oggetti della casa fungono da strumenti musicali ed è la musica a scandire i cambi di registro e di ambientazione. Lo spettatore assiste quasi “spiando”, invadendo gli spazi familiari dell’abitazione, e viene trascinato, inevitabilmente, in un vortice di allucinazioni costanti.

Quello che evince, sin dai primi istanti, è il modo in cui i corpi occupano gli spazi e, al tempo stesso, interagiscono tra di loro: emerge una violenza morbosamente affascinante. I corpi si toccano costantemente, eppure non sembrano rilevare la presenza l’uno dell’altro, come se non si ascoltassero. Come se ci fosse un desiderio di ferirsi: si colpiscono, ma, al tempo stesso, riescono anche a fermarsi un attimo prima di farsi realmente male. Avvertiamo la percezione del tempo che passa, grazie anche alla finestra che si trova nell’appartamento, che scandisce i momenti.

È tangibile il conflitto tra uomini e donne, che non è solo generazionale: nella violenza messa in scena c’è un qualcosa di indecifrabile, sfrenato, eccitante. I personaggi (due ballerine orientali, i restanti quattro occidentali) sono fortemente caratterizzati: c’è il padre, completamente catturato dalla lettura del suo giornale; la madre, che accompagna il movimento della sua aspirapolvere facendovi confluire anche le sue frustrazioni; la sorella più grande, il suo fidanzato e la sorella e il fratello minori. La più piccola cerca le attenzioni della primogenita, concentrata, invece, sul desiderio di cercare un momento di intimità con il suo partner; il fratello più piccolo, infine, anche lui – come il padre – distratto, non si sa precisamente da cosa. Ai protagonisti principali si aggiungono, poi, per alcune scene, altre persone: durante una festa, ad esempio, la casa si riempie di gente, di cui è difficile riconoscerne i tratti caratteristici.

%name ANALOGIE, DIFFERENZE NELLA GERMANIA PRIMA DELLA CADUTA DEL MURO “CAFÉ MÜLLER” E “ALLEE DER KOSMONAUTEN” La coreografia cambia continuamente registro, alternando tinte più cupe a toni più accesi (a cui si accompagnano anche i costumi dei protagonisti), come nelle scene in cui ci si ritrova per strada, in una Berlino trasformata, libera, ma segnata dalle conseguenze. Una città che ha conservato ma anche ricostruito la sua identità. Sono proprio quelle mutazioni a caratterizzare i protagonisti, nel susseguirsi dei loro movimenti e delle loro sofferenze. Ad un certo punto, poi, cambia la “direzione”: la danza invade anche il soffitto, catapultando lo spettatore a testa in giù. Si tratta (ancora) di un’allucinazione? O, forse, si allude al fatto che possa esistere un’idea e anche il suo contrario; che possano, cioè, convivere gioia e rassegnazione, impulso e insoddisfazione. Che non esista – necessariamente – una direzione, ma prospettive e angolazioni differenti, da cui è possibile vedere (o non vedere, anche solo immaginare) cose altrettanto diverse. Si è alla ricerca di qualcosa senza sapere esattamente di cosa si tratta. Sul finale, l’opera di Sasha Waltz assume un registro lento, meno ostinato e caotico. Come se, ad un certo punto, i movimenti diventassero stanchi. Come se si trovasse una consapevolezza, uno “spazio”. La presenza dell’acqua, poi, rappresenta un elemento essenziale all’interno di quella che si presenta – in ogni suo aspetto – come una danza funzionale al racconto, e mai fine a se stessa: in quello scorrere confluiscono anche le loro frustrazioni e, in qualche modo, ci si concede un momento per riposarsi dal dolore. Resta, comunque, la sensazione di trovarsi di fronte ad un’equazione irrisolvibile, in cui la Storia e il contesto concorrono a creare un ritmo claustrofobico e irrisolto.

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