
– di Giuseppe Rock Suppa –
Quando si parla di memoria è inevitabile, almeno per me, non pensare a Proust che scrisse il più grande romanzo di tutti i tempi, Alla ricerca del tempo perduto, sul passato, su ciò che siamo grazie ai nostri ricordi, i quali riaffiorano perfino involontariamente. A Proust associo un altro gigante, Beckett, però di Beckett ne parlo dopo.
Per ora sembra che anche i neonati ricordino, lo dice più di una ricerca di Yale, pubblicata su Science, con tanto di risonanza magnetica funzionale fatta a neonati svegli mentre osservano immagini di volti, oggetti, scene. Gli scienziati in questione sono Nick Turk-Browne, neuroscienziato, e Tristan Yates, psicologo cognitivo, che portano uno studio per dimostrare che il loro cervello funziona già nei primi 12 mesi, che insomma registra proprio come un registratore acceso in una stanza vuota. Il problema non è poi rievocarli: cioè, i ricordi ci sono sicuramente, solo che non li troviamo più.
Tutti diamo per scontato che da neonati non ricordiamo nulla perché crediamo che il cervello da piccoli sia ancora immaturo e che per l’ippocampo occorre tempo, anni per imparare a fare il suo dovere.
Invece ora sappiamo che è già operativo, ma siamo noi che non sappiamo ancora come tornare indietro, come se la nostra infanzia prima dei tre, quattro anni fosse stata salvata su un vecchio floppy disk e non avessimo più il lettore.
Freud aveva già trasformato l’amnesia infantile in mito, e prima di lui Caroline Miles, nel 1893, aveva fatto domande ai bambini tipo “Qual è la prima cosa che ti ricordi?” e la risposta era sempre la stessa: da tre anni in su, e solo se era successo qualcosa di strano, fuori dall’ordinario, tipo un cane che morde, un fratellino che nasce, come se la memoria avesse bisogno di uno strappo per iniziare a cucire qualcosa. Nessuno ricorda la normalità, il vuoto è troppo liscio per restare attaccato alla mente.
Mi ricordo di una mia ex, psicologa, che mi chiese: «Hai avuto traumi infantili?». Le dissi, ironicamente, senza neppure pensarci due volte: «Uno solo, essere nato». «Non puoi ricordarlo mi rispose». «Certo che no, ma devo essere nato per forza, che dici?».
E quindi io, tu, chiunque, non siamo mai stati bambini. Non per noi stessi, almeno. Solo per gli altri. Per i nostri genitori, per le foto in cui ci guardiamo come oggetti. La soggettività arriva tardi. Prima siamo solo occhi, urla, latte. Non è che non fossimo vivi. Solo che non c’eravamo ancora.
Poi c’è questa faccenda dell’apprendimento statistico: i neonati non memorizzano eventi singoli, ma schemi, ricorrenze, ripetizioni, un po’ come se fossimo stati tutti piccoli algoritmi emozionali. Ricordiamo per esempio l’odore di una stanza, la voce che torna sempre: per Proust il sapore della madeleine apre universi interiori. Non cosa è successo, ma cosa succedeva spesso, e questo basta a creare l’illusione di una continuità.
Alla fine tutto si riduce a questo: se non ricordo, non è mai successo, non è mai esistito. Non è affatto vero che siamo la somma dei nostri ricordi, siamo solo ciò che possiamo richiamare alla mente. Il resto è scomparso, forse c’è, ma non parla più il nostro linguaggio, e quindi è come se non fosse mai esistito. Come se io, nella mia prima versione, fossi stato reale solo per gli altri. E per me stesso, mai.
A me viene, sul rapporto tra ricordi e l’essere ciò che siamo nel momento in cui pensiamo a noi stessi, viene in mente invece non solo Proust ma, come dicevo, appunto, Beckett ne L’ultimo nastro di Krapp. Per chi non conoscesse il personaggio beckettiano, Krapp era un signore che voleva mantenere integra la sua identità, perché la nostra identità è formata appunto dai nostri ricordi, e iniziò a registrarsi fin da giovane ogni giorno, accumulando milioni di nastri. Ma quando da vecchio decise di ascoltare i primi nastri restò atterrito, non si riconosceva, stava ascoltando un estraneo: se stesso. In fin dei conti il senso profondo di questo studio potrebbe essere esteso anche alle fasi della vita: ricordi vengono selezionati, altri diventano inaccessibili, e solo per i ricordi che ricordiamo diciamo ancora “io”.
Così quando vediamo una nostra foto, perfino di noi neonati, diciamo “io”. Dimenticare è fondamentale per pensare ma anche per illuderci di essere sempre la stessa persona. A Krapp non resta che ripetere: «Non c’è niente da dire, non c’è niente da dire…».
Trovo tutto ciò terribile quanto meraviglioso.