
– di Giuseppe Rock Suppa –
Parliamoci chiaro: anche noi adulti scrolliamo Instagram come degli scemi, e abbiamo momenti in cui ci troviamo a guardare il nulla su TikTok, o a fissare un video di 30 secondi di un tizio della nostra specie che affetta il sapone o di un altro Homo Sapiens che balla in qualche quartiere malfamato indossando una felpa di Hello Kitty. Tuttavia, per quanto rimbecilliti possiamo essere diventati, il nostro cervello si è formato in un’epoca in cui i libri esistevano, la noia era contemplata e il massimo della dipendenza digitale a portata di mano era Snake sul Nokia 3310.
Io stesso ogni volta mi stupisco, pur avendo letto molto in vita mia o scrivere per rilassarmi proprio come ora, mi ritrovo sempre più spesso a scrollare le storie di persone di cui non mi frega un cazzo di niente, senza nemmeno sapere come ci sono finito dentro, e solo a un certo punto mi domando: ma che cazzo sto guardando? Intanto è passata magari un’oretta, durante la quale avrei potuto fare qualsiasi altra cosa. Non dico ciò per fare il nostalgico o il passatista scemo, anzi: sono cresciuto con i computer, ho avuto internet appena ho potuto, e prima ancora i primi computer, i primi videogiochi, perché negli anni Ottanta e Novanta tutto questo era appena iniziato.
Tuttavia era un altro discorso. Non esisteva questa forma di dipendenza passiva e onnipresente e trasversale che inizia a 6 anni e ti svuota prima ancora di riempirti. Sì, a 6 anni. Infatti secondo un’indagine guidata dallo psichiatra Sergio De Filippis e presentata proprio in questi giorni, il 43% degli adolescenti italiani tra i 12 e i 17 anni usa il cellulare per più di cinque ore al giorno, e il 33% soffre di insonnia, mentre il 58% segnala episodi frequenti di ansia. Il bello è che solo il 17% dei genitori se ne accorge (forse perché sono troppo impegnati a mandarsi affanculo nei gruppi WhatsApp della scuola o a scrollare pure loro come degli scemi).
La cosa più inquietante non riguarda solo l’adolescenza in sé, perfino ciò che viene prima: l’età tra i 6 e i 9 anni, la più vulnerabile, perché espone un cervello ancora plastico e incompleto alla stimolazione artificiale del circuito del piacere, il nucleus accumbens, che viene acceso dagli schermi prima che il bambino sia in grado di gestirlo. È come servire alcol a un fegato ancora in via di formazione (tra l’altro è aumentato anche il rischio per il consumo di alcol tra giovanissimi, ma questa è un’altra storia) con un’interfaccia colorata e feedback sonori ogni tre secondi.
C’è di più: se aggiungiamo otto ore di sonno (forse), sei (minimo) di scuola, cinque di cellulare, il tempo per mangiare, respirare… capisci che non resta più spazio per altro. Il rischio? Quello di formare ragazzi che pensano di avere relazioni intense e in realtà vivono solo storie social effimeri, di immagini e pensano che la vita sia un like. Il 58% riporta sintomi ansiosi, però quello che viene fuori è una nuova forma di isolamento mascherato da iperconnessione e a lungo andare, in quella fascia d’età, questo non può che generare disturbi affettivi, fragilità relazionali, deficit empatici, e una socialità ridotta a rappresentazione di sé.
Il ministro dell’Istruzione Valditara ha proposto di vietare l’uso dei cellulari anche alle superiori. Sono d’accordo, per il resto del tempo però il compito spetta alle famiglie, di qualsiasi tipo esse siano. Altrimenti non stiamo più formando cervelli: li stiamo allenando alla dipendenza fin dall’infanzia, con la scusa che “tanto ci crescono dentro”. Noi almeno ci siamo cresciuti fuori e poi ci siamo lasciati invadere (dalla modernità, dalla libertà, dall’Occidente, e anche dalla tecnologia, che però non è mai stata così passiva). Questi ci nascono già colonizzati, col feed al posto della coscienza e mai un libro in mano (uno qualsiasi). Qualcuno dirà: però prima i bambini si lasciavano davanti alla tv. A parte che il tempo per la tv era contato proprio dai genitori, ma se proprio volevamo essere asociali almeno guardavamo telefilm con una struttura narrativa, immaginazione, fantasia, o cartoni animati meravigliosi, non una droga in cui si scrollano scemi che più sono scemi più guadagnano sulle visualizzazioni di altri scemi (per diventarlo c’è sempre tempo, insomma).
Che sia lontano da me ogni forma di moralismo: non è che gli adulti italiani leggano romanzi, siamo ultimi in Europa per lettura di libri e quotidiani, ma almeno abbiamo avuto l’occasione di imparare come si fa, i ragazzi di oggi no. Qui non è colpa loro: è che sono stati lasciati soli con un feed al posto dell’infanzia e dell’adolescenza. Hanno feed anziché una reale coscienza.