– di Vincenzo D’Anna* –
Non c’è edizione del telegiornale, né pastone di interviste televisive in cui non si senta invocare l’ulteriore finanziamento della cosiddetta sanità “pubblica”. Specularmente, non esiste esponente del governo che non rimarchi il fatto che il Fondo Sanitario Nazionale abbia raggiunto il massimo del finanziamento da quando è stato istituito.
Affermazioni che suonano entrambe vere, ma che sono, al tempo stesso, anche fasulle. Sono vere perché, così com’è organizzato, il nostro sistema sanitario sembra un pozzo senza fondo e, come tale, bisognevole sempre di ulteriori finanziamenti, gestiti dai partiti che governano ed utilizzano la sanità nelle varie regioni.
Sono ugualmente false perché il denaro impiegato — oltre 135 miliardi di euro — non è finora servito a migliorare il sistema di cure, efficiente la gestione in regime di monopolio pubblico e priva di stimolante concorrenza, che ritiene superflue capacità, produttività, economicità e meriti. Tantomeno si sono eliminate, oggi come in passato, le distanze siderali tra il Nord e il Sud del Belpaese: le disfunzioni, l’inefficienza delle strutture sanitarie e l’inefficacia delle cure, la riduzione dei tempi biblici delle liste di attesa per ottenere prestazioni ambulatoriali e specialistiche, i servizi territoriali, di prossimità oppure domiciliari, degni di questo nome.
In un Paese dove, invece di scannarsi, accusando chi governa di ogni nefandezza e chi si oppone di interessato disfattismo, sui grandi temi — come la tutela della salute — ci si dovrebbe mettere intorno a un tavolo per risalire alle cause prime e vere di questo continuo fallimento. E lo si dovrebbe fare perché tutti, prima o poi, saremo utenti del Servizio Sanitario, tutti affetti da patologie bisognose di cure, tutti con un’aspettativa di vita la migliore e più lunga possibile.
Per farla breve, la politica politicante dovrebbe sloggiare veramente dalle aziende sanitarie e ospedaliere, dai policlinici universitari, dalle varie istituzioni che sono poste a presidio e controllo dell’intero SSN. E tuttavia, anche questo forse non basterebbe, essendo tante, troppe, le diversità organizzative e le risorse economiche disponibili in capo ai sistemi sanitari delle regioni ed ai singoli cittadini da una regione all’altra.
Grazie alla sciagurata modifica costituzionale del Titolo V della Costituzione che, tra l’altro, ha consegnato nelle mani degli enti locali i poteri sanitari e le risorse economiche utilizzate, si sono instaurate modalità diverse di gestione. Insomma, un vestito di Arlecchino che già di per sé è difficile da uniformare.
In pasto alle regioni, la sanità è diventata un formidabile centro di spesa (e di deficit) e anche una potente macchina politico-clientelare, luogo di gestione di soldi e opportunità finalizzate raramente ai reali interessi del malato. Un’inclinazione all’utilitarismo politico- gestionale che attraversa tutta la nazione, ma che nel Centro-Sud assume gli aspetti più deteriori.
Nel mentre, al Nord ci si pavoneggia e si sfrutta il bisogno meridionale, con la lucrativa mobilità passiva verso il nord, grazie alle maggiori risorse economiche del rispettivo PIL e della ricchezza pro capite disponibile. Si aggiunga il riparto del Fondo Sanitario Nazionale fatto in parti eguali tra diseguali: il tutto, al Sud, trasforma il sistema sanitario in un gigantesco ammortizzatore sociale, occupazioni parassitarie ed affari.
Ed ecco che in Campania una massa di cittadini malati vaga tra ambulatori affollati, si appoggia su sedie e barelle nelle astanterie dei pronto soccorso, trasformati in accampamenti di nomadi dolenti, di disperati in cerca di conforto, di cure e di una dignitosa assistenza. E tutto questo alla modica cifra di oltre 11 miliardi di euro anno, dilapidati in mille rivoli, in decine di nosocomi semivuoti perché inadeguati e, come tali, poco accorsati, altri invece sovraffollati ed incapienti.
Capita che vecchi e bambini attendano giorni per trovare un posto in corsia, che una massa di operatori sanitari sia imboscata e giaccia negli uffici, altri inoperosi nelle strutture fatiscenti di plessi ospedalieri sotto-occupati. A fronte di questo, schiere di veri e propri eroi si arrangiano e si fanno in quattro per fronteggiare un universo orrendo, una massa di astanti lamentosi.
Quegli eroici dipendenti saranno retribuiti come i fannulloni, perché lo Stato li paga tutti per la sola giornata di presenza, non per quello che fanno, per la complessità del loro agire e delle responsabilità che si assumono in luoghi trasformati in trincee. E lo chiamano “servizio pubblico” perché lo confondono, ad arte, con il servizio gestito in monopolio dallo Stato, ossia dalla regione, che invece di essere super partes e terzo pagatore, si volge benevolmente a difendere le proprie strutture, i suoi dipendenti e le organizzazioni sindacali che li proteggono.
E chi non ha conoscenze, chi non sa a chi rivolgersi e non capisce dove e come poter ottenere le cure necessarie? Si aggrava oppure muore; e chi resta si rassegna a un destino cinico e baro, che non può evitare perché figlio di un dio minore, suddito e non cittadino di uno Stato che lo considera cosa distinta e distante da se stesso. Cittadini degni di votare, servire oppure di soggiacere al potere politico ottuso e crudele che gestisce senza coscienza e senza umanità finanche il dormire e la disperazione di chi soffre.
*già parlamentare




















Ottimo articolo!
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