LA MOGLIE DI CESARE

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   –     di Vincenzo D’Anna *      –                           

Un vecchio adagio popolare dice che i guai arrivano a cavallo, ma se ne vanno a piedi. Saggezza popolare sedimentata nel tempo come esperienza e che in Italia trova una puntuale, costante conferma. L’epidemia che ci ha colpito molto duramente tarda ad affievolirsi nel mentre si disvelano, agli occhi della gente, errori previsionali, superficialità e ritardi decisionali, sia in campo scientifico sia sul versato politico. Non hanno funzionato le pletoriche commissioni scientifiche, infarcite di presunti esperti che raramente l’hanno imbroccata. Il prezzo pagato, in termini di vite umane, è altissimo e qualcuno dovrà, prima o poi, dare conto alle famiglie di migliaia di vittime sacrificali, decedute per mancanza di diagnosi e cure adeguate.

Il tempo dirà se tutto finirà col solito salasso economico, sotto forma di risarcimento in danaro elargito da quello stesso Stato che dovrebbe sedere sul banco degli imputati. Mentre trovano puntuale conferma le teorie irrise e beffeggiate dai virologi trasformati in star televisive, il Governo è squarciato da tensioni interne delle quali tutti farebbero volentieri a meno.

A rubare la scena alle vicende del coronavirus, alle polemiche sulla riapertura di negozi, uffici ed imprese, c’è una perdurante polemica che investe il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ed alcuni magistrati come Nino Di Matteo, componente del CSM, e Piercamillo Davigo, componente del CSM e già presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati. Davigo è noto perché fu punta di diamante del pool di Mani Pulite a Milano. Di Matteo è ritenuto un elemento eminente dell’ala dura e pura dell’antimafia.

Si tratta non di due magistrati qualsiasi, ma di membri del CSM che godono di una notorietà massmediatica che li trasforma in tribuni molto ascoltati, veri e propri oracoli per gli italiani che amano il tintinnio delle manette. Sono, in sintesi, riferimento di forze politiche e parlamentari, organi di stampa schierati a propalare le loro tesi giuridiche. Insomma, pezzi da novanta di quella corrente di pensiero politico che in Italia ha sempre processato al minimo stormir di foglie (ovvero di un avviso di garanzia) in piazza e sui giornali molti politici di centro-destra. Cultori non del garantismo giudiziario e della teoria della presunzione di innocenza, ma dell’esatto contrario, propugnatori di leggi inique come il concorso esterno, reato impalpabile ed estraneo al codice penale, il carcere preventivo e la conseguente gogna mediatica.

Si scontrano con un ministro di Giustizia sprovveduto quanto si vuole, ma solidale con le teorie manettare dei due magistrati. Una lotta fratricida dal punto di vista ideologico, tra magistrati e politici sodali e solidali tra di loro. Quale è il motivo dello scontro? Molto semplice. Nino Di Matteo rinfaccia a Bonafede di non aver ricevuto un incarico a lui promesso, quello di direttore generale del DAP, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Stipendio da oltre trecentomila euro all’anno, un elemento che non sembra marginale nel ragionamento, allorquando di Matteo accusa il Ministro di avergli negato quanto promesso perché la cupola malavitosa si sarebbe dichiarata contraria. Se ci fosse stato un Ministero di centro-destra, una tale palese accusa (in pubblica trasmissione televisiva) sarebbe bastata e avanzata per organizzare il processo al ministro, il combinato disposto tra certi giornali e certe trasmissioni televisive, piazze mediatiche ove il meglio dei maître à penser della sinistra, avrebbe ridotto Bonafede in brandelli. Non difficile che qualche procura avrebbe anche aperto il solito fascicolo precauzionale, con l’uso di pentiti a suffragare, con apposite confessioni, circa la collusione tra politici e mafiosi.

Ovviamente latita la domanda: perché Di Matteo pretende quella carica e perché gli fu promessa a titolo privato? Ma non basta, si scopre che un emendamento al Decreto “Cura Italia”, che sarà rinnovato nei prossimi giorni dal Governo, prevede (tra le materie sanitarie) la proroga di due anni della permanenza in servizio dei magistrati e che quindi Piercamillo Davigo potrebbe beneficiare di questa proroga restando in sella per un biennio. Abbiamo per troppi anni ascoltato Catilinarie moralistiche contro le leggi ad personam, contro i favoritismi che intercorrono tra politica politicante e magistrati compiacenti, sui favori della Casta. Saranno forse illazioni malevoli, ma quando nella vita i personaggi si ergono a metro della pubblica morale bisogna ricordare che la moglie di Giulio Cesare, oltre ad essere onesta doveva anche sembrarlo.

* ex parlamentare