di Mariantonietta Losanno
La famiglia e le sue tensioni sono al centro di “È solo la fine del mondo”, un dramma intimista – espressione tipica del cinema di Xavier Dolan – che racconta la storia di Louis, un giovane scrittore, che scopre di avere una malattia terminale e torna a casa (dopo dodici anni) per raccontarlo alla propria famiglia. Più che dirlo ai suoi parenti, Louis ha bisogno di dirlo a stesso; sente la necessità di prendere consapevolezza, di constatare come non possa cancellare il proprio passato e ricostruire i propri legami. Accettazione e sofferenza sono le due tematiche di fondo che caratterizzano quest’opera, capace di soffermarsi sulla “fine” senza per questo prendere posizioni drastiche. Accettazione e mai rassegnazione. In fondo, è “solo” la fine, è “solo” una malattia, è “solo” la presa di coscienza che non ci sarà altro tempo per sistemare quello che non è andato bene, rivivere certi momenti, recuperare le occasioni perse. Ed è “solo” la piena sicurezza che non si sarà più padroni della propria vita. Come riuscire a concepire tutto questo nell’ottica di una visione fiduciosa e non rassegnata? Come evitare di soffrire?
È questo il punto: Dolan si è soffermato più volte su tematiche legate all’accettazione di sé (“Laurence Anyways”, “Tom à la ferme”), sui legami familiari e sul rapporto madre-figlio (“Mommy”), su un’idea di amore senza etichette (“Matthias & Maxime”); e tutte le volte che lo ha fatto, ha permesso allo spettatore la libertà di emozionarsi, di commuoversi, ma al tempo stesso di analizzarsi e maturare. Affrontando i rapporti familiari, l’amicizia, gli amori senza confini di genere, la ricerca-scoperta della propria identità, Nolan mantiene uno sguardo lucido, fresco e persino ottimista. Tutto questo, forse, sarà dovuto al fatto che parliamo di un regista di appena trentadue anni e che possiamo definire un vero e proprio enfant prodige (al debutto come attore aveva cinque anni e quando ha esordito come regista ne aveva venti). Non si tratta di dire “solo” come per sminuire la gravità di una situazione, ma per esorcizzare il dolore, facendolo diventare più sopportabile, non rendendolo assoluto. Non si può evitare di soffrire, ma si può scegliere come affrontare il dolore, provando anche ad “evolversi”, seguendo l’idea di Alda Merini che “per evolversi la vita deve fare male”.
In “È solo la fine del mondo” Dolan si avvale di un cast d’eccezione: c’è l’intensità di Gaspard Ulliel, la rabbia di Vincent Cassel, la dolcezza di Marion Cotillard, lo smarrimento di Léa Seydoux e l’amore folle di Natalie Baye. Ci sono le frustrazioni, le urla (a volte sembra persino di trovarci nell’atmosfera dei film corali di Özpetek), ci sono le incomprensioni, le difficoltà di comunicazione, i rimpianti e le sofferenze inespresse (o alle volte espresse con violenza): c’è il quadro perfetto di una famiglia. Una famiglia con i suoi problemi, che non riesce a trovare un equilibrio tra il disprezzo e il profondo affetto. Dolan analizza gli eccessi, proprio per afferrare l’anima nascosta dei suoi personaggi. Li scruta, sviscera ogni loro emozione, li mette a nudo. Lo spettatore partecipa empatizzando e, al tempo stesso, mettendosi in gioco. Perché questo è un tipo di cinema “compromettente”, che non permettere di restare ad osservare senza osservarsi. Viene da domandarsi come si reagirebbe ad una notizia di una malattia terminale (scoperta alla stessa età di Louis), come si affronterebbe la situazione, come si supporterebbe un fratello, un figlio, un cugino. Ci si mette in discussione, appunto. Si riflette sull’intensità dei sentimenti e su quanto, a volte, accecati dal proprio dolore non si arrivi ad una collaborazione con l’altro ma ad un allontanamento. Proprio perché vorremmo che i nostri affetti non ci lasciassero mai, diventiamo aggressivi quando sentiamo che c’è qualcosa più grande di noi (in questo caso una malattia terminale) che può portarceli via. E la rabbia, a volte, la sfoghiamo persino con la persona colpita.
“È solo la fine del mondo” si muove tra l’esuberanza e la disperazione: Xavier Dolan mette in scena persino quello che i personaggi non riescono a dire a se stessi, fa luce anche sugli aspetti più reconditi. Il regista rifiuta di dare un senso alle discussioni familiari – così come avviene nella vita reale – lasciando allo spettatore la libertà di scovare quello che si cela dietro. La visione, per certi versi, è soffocante: le parole vengono urlate, stroncate e farfugliate. E tutto questo stordisce. Ma nell’eco di uno sfogo privo di significato e nelle domande senza risposta si trova la verità: “È solo la fine del mondo” è l’emblema di un cinema imperfetto – e per questo reale – nevrotico e straordinariamente vivo, persino quando si parla di morte. La macchina da presa è sempre “addosso” agli attori: le loro performance si presentano, così, crude, ossessive e coinvolgenti. Dolan non ha paura di caricare gesti e parole – smussandoli solo con la musica – mettendo in scena un gioco esasperato ma coraggioso.