“WHAT DID JACK DO?”: L’INQUIETUDINE DELLA DEFORMAZIONE

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di Mariantonietta Losanno 

Quello di David Lynch è un cinema che prende le mosse dal surrealismo – e quindi da Dulac, Buñuel e Dalì – e che si propone, quindi, di indagare esperienze psicologiche inconsce e superare la scissione tra realtà e mondo onirico. Un tipo di cinema che riesce ad esaltare ciò che non è casuale, che emerge di sorpresa, il non-senso: ciò che conta è il “gesto”, il “comportamento”, che deve essere di proposito provocatorio, irritante, folle. L’unica libertà possibile si trova nell’immaginazione e nella potenza creativa del sogno e delle allucinazioni, che possono produrre un’altra realtà, una meravigliosa “surrealtà”. Fuori da ogni controllo della logica e della ragione, affidandosi agli accostamenti assurdi delle cose e provocando stati di ebbrezza e allucinazione, è possibile anche che una scimmia venga sottoposta ad un interrogatorio con un’accusa di omicidio. 

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Per l’ennesima volta Lynch ci porta nella sua “astrattezza”, ovvero quella suggestività atmosferica che per lui non va ridotta ad una formula intellettuale o ingabbiata in una descrizione definitiva. L’intento è sempre lo stesso: creare opere “perpetuamente” misteriose, tali da indurre un senso di meraviglia che susciti e al tempo stesso frustri – in un ciclo potenzialmente infinito – il desiderio dello spettatore di dare un senso alle immagini e alle storie che gli vengono offerte. Si possono trovare molti significati, come non trovarne nessuno (le idee arrivano alla rinfusa e seguono un ritmo tutto loro), ma in questi diciassette minuti, c’è tutta la vita di David Lynch: il mistero, l’interesse per gli stati di coscienza alterati, dilatati o amplificati, la ricerca dell’ignoto, la paura, l’arte, la pazzia; e ancora, ci sono le caratteristiche tipiche di un thriller (è come se ci trovassimo di fronte all’agente speciale Dale Cooper impegnato nelle indagini sull’omicidio di Laura Palmer), c’è la “femme fatale” (come lo sono state Dorothy Vallens in “Blue Velvet” o Alice Wakefield in “Lost Highway”), e c’è persino il musical. Lynch, dunque, riflette sul cinema stesso, soprattutto sul suo. 

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In “What did Jack do?” (disponibile sulla piattaforma Netflix) ci troviamo all’interno del bar di una stazione. Tutti sono fermi perché in giro c’è un folle omicida. Un detective sta ponendo domande incalzanti all’indagato. Fin qui tutto lineare. Viene accusato, però, di essere stato visto con dei polli; gli viene chiesto se sa qualcosa di uccelli da cortile: l’indiziato (Jack) è, infatti, un scimmia. Se c’era riuscito con dei conigli, perché non provarci anche con una scimmia? In “Rabbits” (2002) – una serie di otto cortometraggi scritti per il web – Lynch, non piegandosi ad alcuna forma di categorizzazione e muovendosi completamente fuori dagli schemi, aveva messo al centro degli eventi tre conigli antropomorfi. Le loro conversazioni erano prive di qualsiasi nesso logico, scollegate le une dalle altre e refrattarie ad ogni principio di consequenzialità. Anche in “Rabbits”, però, Lynch – in apparenza – voleva presentare scene di vita quotidiana, preferendo sempre suggerire una riflessione più astratta e concettuale sull’immagine e sul linguaggio cinematografico. In “What did Jack do?”, il regista prende le mosse da elementi facilmente riconoscibili e in un certo senso familiari (il bar di una stazione, un detective, una cameriera, un interrogatorio con domande pertinenti alla situazione), per arrivare poi a creare un prodotto alienante e conturbante che confonde il reale e l’immaginario in modi imprevedibili. 

È un mondo meraviglioso quello di David Lynch. Un mondo in cui una scimmia in giacca e cravatta spiega come “il primo amore sia come una banana”, un mondo in cui è possibile sentirsi perfettamente a proprio agio nella follia, in cui è possibile persino che un qualcosa di così ambiguo e sconclusionato diventi credibile. Il pubblico accetta la manipolazione, lasciando che l’assurdo e la normalità si mischino insieme sovvertendo gli schemi tradizionali. In soli diciassette minuti sono contenuti i tratti distintivi dell’arte visionaria di un regista capace di mobilitare ogni aspetto del processo di realizzazione di un film per esprimere se stesso. E tutto questo non sarebbe possibile se non si concepisse Lynch nella sua totalità, ovvero come pittore e autore di film di avanguardia; il mondo di raccontare del cinema “tradizionale”, con la sua esigenza di logica e leggibilità, lo limiterebbero a lavorare entro un solo genere per volta. L’inquietudine – simile a quella riscontrabile nei racconti di Edgar Allan Poe – è la sua cifra stilistica. Ed è questa la sostanza di “Eraserhead”, “Velluto blu”, “Strade perdute” e “Mulholland Drive”. L’espressione psicologica di queste opere sta nella metafora del “doppio”, dove la minaccia è data dall’esistenza di una copia di se stessi, tanto più terrificante in quanto l’altro non è veramente “altro”. Così come la scimmia è  – e non è – una scimmia. 

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“What did Jack do?”, attraverso l’utilizzo del bianco e nero e di tutti gli stilemi classici del giallo poliziesco mostra una forte volontà di cercare la verità, omaggiando il noir classico americano; ma  imponendosi comunque come un prodotto grottesco e surrealista. Prima ancora di parlare di cinema, si dovrebbe parlare di “universo lynchiano”, tanto in sala, quanto in streaming o in televisione. Il delirio non è destinato a trovare una spiegazione, né tantomeno una risposta: la razionalità esula da questo genere cinematografico. Lynch non si piega alle volontà del cinema mainstream (prendendosi anche il diritto di chiedere ad una scimmia se è membro del partito comunista); resta se stesso in meno di venti minuti così come in una vita intera. Bastano una stanza, un tavolino, due sedie, una piccola finestra, un caffè e una scimmia di nome Jack sospettata di omicidio. Non ci resta che abbandonarci alla follia più lucida che ci sia.