“AMAMI SE HAI CORAGGIO”: QUAND’È CHE SI AMA DAVVERO E QUANDO SI GIOCA AD AMARE?

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di Mariantonietta Losanno

“Arrivati a questo punto

dicesti

o si va oltre 

o non ci si vede mai più. 

Non capivi che il bello era proprio quel punto

era rimanere

nel limbo delle cose sospese

nella tensione di un permanente principio

nel nascondiglio di una vita nell’altra”

(Michele Mari – “Cento poesie d’amore a Ladyhawke”)

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L’esordio poetico di Michele Mari sintetizza la pellicola di Yann Samuell “Amami se hai coraggio” (titolo che, tradotto in italiano dall’originale “Jeux d’enfants”, richiama una banale commediola romantica): la sua dichiarazione d’amore lunga cento poesie descrive l’amore – e la passione – in modo così irriverente da risultare contraddittorio. Il suo racconto di un amore in versi analizza come un sentimento possa assumere forme deliranti: la sua opera è, dunque, al tempo stesso romantica e dissacrante, capace di cogliere con una “rivoluzionaria” ironia aspetti di un tema quasi monotono in poesia come l’amore. Proprio per questo, la raccolta poetica di Mari, può fornire la chiave di lettura per comprendere a fondo “Amami se hai coraggio” , il racconto di un amore che nasce per rimanere solo un’illusione, un amore che non deve concretizzarsi e scontrarsi con la realtà. 

Quello che lega Julien e Sophie è un sentimento totalizzante, irrealizzato e – soprattutto – irrealizzabile. La loro infanzia poco idilliaca li lega irrimediabilmente; la loro simbiosi (infantile ed adulta) scaturisce dal loro essere così “atipici” e fuori dagli schemi. Ed è proprio da bambini che iniziano a “giocare”. Un carillon (che vuole in parte rimandare a quello de “Il favoloso mondo di Amélie”) è il loro unico strumento: chiunque lo possegga ha il diritto di chiedere all’altro di fare qualsiasi cosa. I due, però, non si accontentano di dare sfogo alla loro immaginazione: vogliono sovvertire tutte le regole del mondo, vivendo senza limiti. Il gioco – come si può facilmente prevedere – diventa in breve tempo crudele e folle. Da bambini le richieste che si rivolgevano erano di carattere infantile, ma in età adulta il gioco diventa una sfida a chi è più forte, a chi è capace di essere più cattivo e spietato. Viene da chiedersi, allora, cosa si vince e cosa si perde in questa “sfida al massacro”. E, soprattutto, cosa resta oltre al gioco? Per Julien e Sophie la paura di confrontarsi con la realtà è così forte da preferire di vivere lanciandosi continue provocazioni, sempre più sadiche e perverse. Per arrivare a capire se il sentimento che li lega è reale, allora, non resta che sfidarsi ancora di più e, inevitabilmente, perdere. 

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“Prendere in giro” la vita è una trovata geniale e brillante che, però, Yann Samuell esaspera. Il sogno di vivere restando sempre bambini – concedendosi anche il lusso di una “vecchiaia infantile” – non può verificarsi se non ci si confronta con la vita reale. Non si possono eludere tutte le regole, provare a cavarsela con l’inganno e l’astuzia per sempre: tutto questo non è realmente una dimostrazione di coraggio e caparbietà, ma di debolezza e paura. L’irriverenza e la passione possono convivere ma è impossibile dimenticare la realtà e sostituirla con la fantasia per sempre: prima o poi bisogna rompere la magia. Chiunque sogna di baciarsi sul tetto di un automobile, o di deridere il direttore della propria scuola; ma non prendersi le responsabilità delle proprie azioni è sintomo di coraggio (e di quello stesso coraggio a cui inneggia il titolo del film)? Immaginare che tutta la vita debba essere “en rose” è espressione di un surrealismo (fin troppo) ostentato. Il debutto di Yann Samuell però, resta un’opera fuori dagli schemi, una commedia a-romantica che va maneggiata con “cura” mantenendosi lucidi. Perché l’adrenalina, la passione, l’amore che sceglie di “fregarsene del mondo” affascinano ma quando il gioco arriva a sfidare il sentimento quali saranno le conseguenze? 

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Julien e Sophie sono “dipendenti” dal brivido e dalla follia, riescono – stando insieme – a fare uscire il loro meglio e il loro peggio; proprio perché così intensi, questi sentimenti vanno vissuti teneno almeno un “piede nella realtà”. Perché l’idea di costruirsi un mondo alternativo in cui vivere un amore che sfugga alle abitudini e alle convenzioni è una scelta vincente che può ritenersi “giusta” solo se capace di sopravvivere (anche) nella realtà. Dietro i giochi, il desiderio di stupire e di stupirsi, le vendette, e il bisogno di sentirsi vivi, bisogna sapere trovare la “magia” anche “nel mondo” e non solo “fuori”. E allora “Amami se hai coraggio” (che ricorda l’idea di (non) romanticismo – o meglio di un “nuovo romanticismo” – di “One day”) pone un’importante domanda allo spettatore: “giochi o non giochi?” È vero che serve coraggio per amare, ma, dopo tanti giochi, la vera vittoria è la semplicità di un sentimento che va solo accettato per quello che è. Sarebbe tutto più facile se bastasse vincere una sfida, se bastasse “saltare tre mattonelle” per salvare la propria madre da una malattia, ma prima o poi bisogna scontrarsi con la realtà. Questo non vuol dire accettare passivamente di vivere con convenzioni sociali che possono svilire un sentimento: il vero coraggio, forse, sta proprio nel saper vivere fuori dagli schemi pur restandoci.