“NAPOLI VELATA”: AMORE E MORTE, ANCORA UNA VOLTA

0

di Mariantonietta Losanno

La scalinata imponente di un elegante palazzo napoletano si trasforma in un vortice hitchcockiano (che subisce anche il fascino di “Profondo rosso” di Dario Argento) e ci conduce nell’abisso di una mente traumatizzata: la scena che apre il film è il filo conduttore dell’intera narrazione e si presenta come un evento passato, presente e futuro. 

Adriana è un medico legale; il suo, però, più che un lavoro è un rifugio: riesce a trovarsi molto più a suo agio con i morti che con i vivi. La morte l’ha “accompagnata” sin da bambina, ma molti suoi drammi interiori sono rimasti irrisolti. Riemergono, però, dopo una notte appassionata insieme ad Andrea, un giovane che la seduce e che la travolge completamente. L’inizio di un’indagine poliziesca la condurrà alle radici del suo passato. 

%name “NAPOLI VELATA”: AMORE E MORTE, ANCORA UNA VOLTA

Ci sono due fondamentali aspetti che in “Napoli velata” non accrescono la tensione, ma al contrario distraggono e confondono lo spettatore, portandolo ad imboccare strade contraddittorie ed ingannevoli. Innanzitutto, l’eccessiva ostentazione di Özpetek della passione e dell’erotismo (in cui nulla resta “velato”) che distoglie – in parte – l’attenzione sul tema centrale di tutta la pellicola, ovvero la perdita. Una sorta di “omaggio” a De Palma e al suo “Omicidio a luci rosse” o al “Basic Instinct” di Verhoeven ai quali, però, Özpetek sottrae tutta la suspense e il tecnicismo, mostrando persino un po’ presunzione (al punto da potersi consentire di apporre solo il suo cognome sulla locandina del film). In secondo luogo, poi, c’è l’esplorazione di una Napoli “magica”. Questo, probabilmente, più che un aspetto che disorienta si presenta come un “elemento compensativo”: la Napoli sfuggente carica di misteri e luoghi di bellezza arricchisce – e riempie – il film, permettendo anche alla narrazione di scorrere senza linearità. La pellicola è stata interamente girata a Napoli, principalmente tra il quartiere di Chiaia e il centro storico, con alcune location d’eccezione come il Museo Archeologico Nazionale, la Farmacia degli Incurabili, la Certosa di San Martino, la Cappella San Severo e il Mercato del Borgo di Porta Nolana. Napoli si impone, dunque, come protagonista. E lo fa in un modo, però, molto diverso da quello che era stato per “Rosso Istanbul”, in cui la nativa Turchia del regista non deviava (completamente) l’attenzione dalla ricostruzione dei personaggi (fortemente caratterizzati) e dalla narrazione intimista e di grande intensità emotiva. 

%name “NAPOLI VELATA”: AMORE E MORTE, ANCORA UNA VOLTA

Özpetek si muove tra realtà e fantasia, lasciando allo spettatore la possibilità – o la responsabilità – di attribuire un senso: ci si può affidare totalmente all’immaginazione e credere che ci sia qualcosa di soprannaturale o imbarcarsi nell’impresa di definire una diagnosi per Adriana. Se, però, inizialmente quella passione violenta affascina il pubblico, lo porta anche – ad un certo punto – a sentire l’esigenza di dare un significato alle immagini. Perché, se alcuni thriller hanno la forza di reggersi senza un’evidente ed esplicita chiave di lettura, “Napoli velata” sembra aver bisogno di una consequenzialità. Come se la potenza narrativa non bastasse a permettere al film il lusso di non seguire un andamento lineare; è quello che invece i fratelli Coen, David Fincher, Christopher Nolan, o – per citare qualche nome italiano – Dario Argento e Lucio Fulci, possono permettersi di fare. L’ambiguità in un personaggio o in una storia è tanto interessante quanto “pericolosa”; la follia va affrontata con massima lucidità, anche – e soprattutto – quando sembra che ogni cosa venga lasciata al caso. La componente thriller in “Napoli velata” si consuma esclusivamente nella mente della protagonista; Özpetek ci illude, facendoci credere di stare per togliere quel “velo” e, proprio mentre sta per “spogliarsi” si perde nella sua confusione. È Napoli il “velo” che copre le soluzioni approssimative della narrazione, e Özpetek, dunque, nonostante “ammicchi” preferisce mantenerlo quel “velo”, sembra, anzi, voler filtrare la realtà quasi per costrizione. È meglio, allora, concentrarsi sulla bellezza dei luoghi e sui percorsi della mente.