L’ULTIMO VOLO

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di Vincenzo D’Anna*

Non sono poche le malinconiche considerazioni apparse nei vari post pubblicati sui social network, dedicati alla chiusura di Alitalia. Come altri carrozzoni a partecipazione statale, finanziati con i soldi dei contribuenti, anche quello dell’ex compagnia di bandiera della aeronautica civile italiana, chiude, si spera definitivamente, i battenti. Ai nostalgici della grandeur nazionale sarà bene rinfrescare un poco la memoria su quanto denaro abbia inghiottito questa società aerea che recava, ben impresso, lo stemma tricolore sul timone di coda degli airbus della propria flotta. Fondata a guerra finita come ALII (Aerolinee Italiane Internazionali), una volta rimossi i divieti degli alleati vincitori, la compagnia ebbe un capitale sociale iniziale di 900 milioni di vecchie lire ripartito tra l’IRI, ovvero il Ministero del Tesoro (per il 47%), e la compagnia aere inglese BOAC (il 40%). Il rimanente fu diviso tra imprenditori privati. Nel giro di un triennio la sigla fu mutata in Alitalia. In quel periodo – siamo negli anni Cinquanta del secolo scorso – la principale concorrente della neonata società era la LAI (Linee Aeree Italiane) di proprietà della stessa IRI e dell’americana TWA. Una realtà meglio equipaggiata e con un maggior numero di aeromobili grazie all’apporto del socio a stelle e strisce. Tuttavia l’IRI, per calcoli politici e di impegno economico, impose la fusione delle due compagnie, liquidando i rispettivi soci inglese ed americano. Fu quello il primo grosso investimento a carico dello Stato, ovvero fatto con i soldi dell’erario statale. Vero è che quelli erano i tempi dei bilanci statali in attivo e dei generosi contributi all’Italia versati dell’alleato statunitense per assicurarsi la benevolenza e la scelta filo atlantica dei governi centristi guidati da Alcide De Gasperi. Presidente della Repubblica era un economista illuminato di credo politico liberale, più volte ministro del Tesoro, Luigi Einaudi, che ben teneva a bada gli sprechi e gli sperperi della politica. Questi ultimi sarebbero poi subentrati, rovinosamente, con i governi di centrosinistra e la politica delle nazionalizzazioni. L’ingerenza dello Stato in economia e lo sperpero di denaro si affermò come sistema di governo, una volta tramontata la stella di De Gasperi e quella dei governi centristi. Al Quirinale sedeva l’ex sindacalista DC Giovanni Gronchi ed a capo del governo il giovane Aldo Moro (con Pietro Nenni alla vice presidenza). Insomma politici più inclini al modello stalista ed al ruolo di massima espansione dello Stato tramite gli interventi dell’IRI e della spesa pubblica crescente. Con il denaro pubblico Alitalia crebbe arrivando a toccare il suo culmine negli anni ’60 e ’70. Poi iniziò il declino. Con l’avvento dei motori a reazione, infatti, ma ancor più con la perdita del monopolio sulle tratte interne ed internazionali, i conti iniziarono a vacillare fino ad andare drammaticamente in rosso. La situazione finì per peggiorare a causa di una serie di scioperi selvaggi proclamati nell’autunno caldo degli anni Ottanta. Da quel momento in poi le cose andarono di male in peggio, sia per le grane sindacali mai risolte fino in fondo (per il conflitto scatenato da una sempre maggiore numero di dipendenti), sia per le tariffe più economiche offerte dalle altre compagnie aeree rivali. Insomma la logica imprenditoriale e le ferree leggi del mercato di concorrenza (migliore servizio a prezzi più convenienti), unite alla sempre più esasperata “competizione” con le altre soocietà, nel frattempo divenute più grandi grazie alla politica delle fusioni, portarono Alitalia sull’orlo del deficit. Comincio’ l’era di presentare, per decenni, bilanci in rosso che poi venivano puntualmente ripianati dallo Stato. La crisi divenne esiziale allorquando le norme sulla libera concorrenza dettate dalla Comunità Europea impedirono allo Stato italiano di andare in soccorso della compagnia aerea. Nelle more lo Stato diede in appalto esterno la gestione della compagnia aerea ad un gruppo di imprenditori che, nonostante gli sforzi di riportare l’azienda ad un migliore e più sano regime concorrenziale, fallì nell’intento di risanarla. Tra una crisi e l’altra – e tra queste è arrivata anche quella “provocata” dai ben più convenienti voli “low cost” praticati dagli altri colossi dell’aria – si è giunti ai giorni nostri. Chiunque, negli ultimi mesi, abbia viaggiato in aereo sa bene che i prezzi praticati da Alitalia sono di gran lunga i più onerosi e con essi la compagnia di bandiera è praticamente finita fuori mercato. Non diversamente dagli altri enti partecipati dallo Stato, anche alla nostra compagnia di bandiera è toccata l’amara sorte di soccombere per la mancanza di competitività, avvilita dalle spese e dal numero dei dipendenti ben protetti dai sindacati, che ne hanno condizionato in maniera determinante la permanenza sul mercato. Un’agonia che è costata lacrime e sangue al contribuente (ed alle casse dello Stato). Una storia, quella appena tracciata, che ripercorre i fallimenti di altre aziende a gestione pubblica ove i criteri della libera impresa sono stati cancellati dalle magagne politiche e sindacali che hanno tenuto in piedi il carrozzone. Ci aspettano adesso le insorgenze e le proteste degli addetti ai lavori che certamente graveranno sul pubblico erario sotto altre forme di assistenza sociale. Molti sono delusi dal fatto che sia stata ammainata la bandiera italiana nei cieli: sono tra questi i nostalgici e gli altruisti, questi ultimi intesi come quelli che intendono fare del bene coi soldi degli altri.

*già parlamentare