“SQUID GAME”: IL PARCO GIOCHI DELL’ORRORE DAI COLORI PASTELLO

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di Mariantonietta Losanno 

Prima che “Parasite”, l’opera sul “contrasto” tra mondi di Bong Joon-ho, entrasse nella storia per essersi aggiudicato quattro statuette – tra cui quella per il miglior film e per la migliore regia – diventando, così, il primo film in lingua straniera a vincere l’Oscar, la cinematografia coreana aveva già dimostrato la sua (complessa) importanza.

Il cinema coreano resta – quasi del tutto – un cinema d’autore: i festival di Cannes, Venezia e Berlino hanno celebrato personaggi eclettici come Park Chan-wook di “Old boy”, Kim ki-duk di “Pietà” e Hong Sang-soo di “The Woman Who Ran”. E ancora, i k-drama – alcuni disponibili anche su Netflix, come “Hymn to Death” o “One More Time” – hanno permesso di far conoscere non solo costumi ed usanze coreane, ma anche di comprendere il modo di “raccontare l’amore” con estrema delicatezza e in tutte le sue forme. “Parasite”, quindi, ha “solo” messo in luce una conclamata produzione cinematografica originale e assolutamente sorprendente. Se, però, Bong Joon-ho è stato capace di portare sullo schermo “una profondamente umana visione della rovina dell’umanità” – come è stato scritto sul New York Times – l’analisi del fenomeno “Squid Game” è tutt’altra cosa. 

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Innanzitutto, l’attaccamento morboso a questa serie è già di per sé un dato preoccupante. Tutti ne parlano, tutti hanno rispolverato il gioco “un, due, tre stella”, tutti ne sono rimasti “ipnotizzati”; tutto ciò comporta, dunque, che chi non l’ha vista “non è nessuno”, a quanto pare. L’accanimento che nasce dal successo di un prodotto cinematografico può avere sempre un risvolto pericoloso, ma in questo discorso, bisogna abbandonare la retorica o, ancora peggio, l’ipocrisia. Il cinema, e in modo più ampio l’arte, ha sempre dato il meglio di sé avventurandosi nei lati più oscuri dell’essere umano. Gli scandali e i dibattiti sulla censura hanno toccato opere “intoccabili” ed è un dato di fatto che il fascino del male sia senza tempo, così come il fascino dell’immedesimazione in qualcosa che è “altro da noi”, anche in negativo. Questo vuol dire che, come spugne, assorbiamo tutto ciò che ci viene proposto? O, probabilmente, dipende dalla sensibilità di ognuno? C’è chi nella violenza estetizzante di “Arancia meccanica” ha colto la cifra stilistica di Kubrick e chi ha visto solo e soltanto violenza; o c’è chi in “Lolita” – nel film come nel romanzo – ha trovato solo immoralità, volgarità e perversione, e chi è andato oltre l’“oscenità” per apprezzare la rappresentazione di un legame libero. Oggi “Squid Game” è il contenuto streaming più visto – e discusso – al mondo. La storia mostra uno spaccato della Corea del Sud: l’indebitamento è una problematica crescente e ci si riduce al gioco d’azzardo per darsi una prospettiva. Che succede se, in una condizione del genere, viene proposto di partecipare ad un folle gioco insieme a tanti altri “disperati”? Un gioco non solo folle, ma ricco, che fa intravedere l’ipotesi di un riscatto: la possibilità di vincere un montepremi di 45,6 milioni di won (pari a circa 30 milioni di euro). Una volta accettato di prendervi parte, vengono proposti ai partecipanti giochi da bambini come la campana o “un, due, tre stella”; tutto molto “simpatico” e teneramente nostalgico, se non fosse che, chi perde viene letteralmente eliminato. 

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“Squid Game” vuole mostrare un mondo classista: i ricchi hanno il potere e i poveri hanno i debiti. Tanto vale rischiare anche la morte, anche a discapito degli altri (mors tua, vita (e soldi) per chi resta): quando non si ha nulla da perdere chi non sarebbe disposto a mettersi “in gioco”? In più, avendo la possibilità di un posto sicuro – nonostante somigli ad un campo di concentramento – per sentirsi protetti da eventuali aggressioni esterne. Che l’entertainment sia cambiato è certo: prodotti, dettagli ed oggetti diventano parte di un sentimento comune, si radicano nel nostro immaginario a livello più o meno inconscio e diventano dei “must have”. Perché l’oggetto diventa simbolo di un’idea, l’identificazione di un principio. E questo meccanismo, naturalmente, si adatta ai meccanismi del marketing. “Squid Game” non poteva che diventare un fenomeno; sono piccoli – ma grandi – meccanismi che fanno parte del mondo dell’intrattenimento e che, in modo “subdolo”, manipolano per massimizzare la notorietà. Non dovrebbe stupirci, allora, che tutto il settore dell’abbigliamento ha visto un cospicuo incremento di acquisti sportivi proprio perché sono stati visti nella serie. O meglio, i numeri potrebbero ancora stupirci, ma il meccanismo alla base ha una sua storicità. Cosa succede, però, quando la metafora che lo spettatore vede messa in scena – in modo così freddo e macabro – non viene vista più solo come una metafora? Chi assiste a questo gioco al massacro potrebbe anche arrivare a pensare che una tale follia, prima o poi, avvenga. O che sia un modo per “sopravvivere”. I colori pastello, i personaggi e i giochi di “Squid Game” assumono facilmente un aspetto reale al punto da poter “perdere il controllo”. Ed è stato già così: alcuni bambini hanno emulato il gioco “un, due, tre stella” puntandosi un’immaginaria pistola o addirittura tirandosi degli schiaffi prendendo ad esempio un altro gioco della serie. 

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Il fascino (discreto) del successo – come quello della borghesia per Buñuel – può diventare morbosità. Come è possibile difendersi da tutto questo? Perché è proprio di questo che si deve parlare: non tutti sono in grado di scindere la finzione narrativa dalla vita reale. Ci si potrebbe difendere utilizzando uno sguardo critico, ad esempio. Ma, ad un bambino si riuscirebbe a spiegare facilmente la differenza tra allegoria e vera violenza? Una serie come “Squid Game” necessita di una vera e propria analisi sociologica per riuscire ad andare oltre le immagini di bare “infiocchettate”: nella “vera” Corea del Sud l’indebitamento è un problema concreto ma, per comprendere questo, bisogna tralasciare il fatto che si assista a sadici giochi mortali allestiti da una misteriosa organizzazione che prima recluta e poi segrega. L’indebitamento si inserisce, poi, in Corea, all’interno di un contesto generale di un divario salariale crescente, con una sempre maggiore disoccupazione. Analizzando a fondo questa prospettiva, chiedere organi al debitore sembrerebbe persino “lecito”. La situazione della Corea è fuori controllo, ma la chiave narrativa di “Squid Game” è senza dubbio estrema. Nella Corea del Sud le diseguaglianze sono ai massimi storici: basta un cattivo investimento per chiedere un prestito ad un istituto di credito e poi restare oppressi dagli interessi. Quello di “Squid Game” si presenta, allora, come futuro distopico fin troppo reale. Ma, se in “Black Mirror” le conseguenze dell’abuso tecnologico spaventavano, in questo caso terrorizzano. Si supera persino la legge di Hobbes “Homo homini lupus”: i personaggi di “Squid Game” sono disposti realmente a tutto pur di vincere il montepremi.

%name “SQUID GAME”: IL PARCO GIOCHI DELL’ORRORE DAI COLORI PASTELLOEstremizzare fino al plausibile è pericoloso. Perché l’orrore non scaturisce (solo) dalla visione costante di massacri feroci e, soprattutto, gratuiti, ma dalla sensazione di plausibilità. Così come “Parasite”, “Squid Game dipinge la disfatta di un sistema iniquo, dal quale non emerge, però, alcuna alternativa: ci si ritrova solo storditi da un’escalation di violenza. 

“Squid Game” estremizza l’irriverenza, il coraggio, la capacità di fare satira denunciando: è davvero possibile, allora, riuscire ad andare oltre per approfondire le problematiche della Corea del Sud con uno sguardo lucido? L’iper-violenza nasconde il vero messaggio o lo esalta? E, ancora, contrapporre l’innocenza dei giochi infantili alla consapevolezza di qualcosa di sadico cosa comporta? Probabilmente, non basta uno sguardo critico a “salvarci” da tutto questo.