“LA SCELTA DI ANNE”: L’ARTE COME GESTO POLITICO E LA STRAZIANTE AFFERMAZIONE DI SE STESSI

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di Mariantonietta Losanno 

“Senza cultura e la relativa libertà che ne deriva, la società, anche se perfetta, sarebbe una giungla”, ha detto Albert Camus. Se pensiamo, allora, che la libertà scaturisca dalla cultura, come ci spieghiamo il prezzo che dobbiamo pagare per esercitarla? “La scelta di Anne”, Leone d’oro alla 78esima Mostra del Cinema di Venezia, racconta la storia di una ragazza degli anni Sessanta che sceglie l’aborto clandestino pur di non rinunciare al proprio futuro. 

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Ci troviamo nella Francia di sessant’anni fa, non di più. Senza bisogno di particolari accenti di recitazione e di regia, “La scelta di Anne” è – prima di tutto – un film sulla solitudine. Una giovane donna che vuole abortire perché diventare madre alla sua età la allontanerebbe di fatto dalla sua aspirazione di studiare all’università e di costruirsi il proprio futuro, si ritrova sola. Non può confrontarsi con nessuno, non può chiedere assistenza medica, non può lasciarsi seguire da uno psicologo per elaborare il trauma. Dalla solitudine scaturisce, naturalmente, il dolore, sia fisico che mentale. Al di là della discussione sulla libertà di decidere della propria vita (che, se la affrontassimo, ci porterebbe probabilmente a cedere ad una banale retorica), è più giusto chiedersi: quanto ci riporta – realmente – indietro nel tempo questo film? Se solo pensassimo alla legge attualmente in vigore in Texas che vieta l’aborto dopo sei settimane, o, volendo ampliare il discorso, ci soffermassimo sulla condizione delle donne in Afghanistan, potremmo affermare che un film (politico) come “La scelta di Anne” ci porta realmente indietro nel tempo? In Francia l’aborto è legale grazie ad una legge del 1975 e alla dura battaglia portata avanti da Simone Veil. Neanche cinquant’anni, appunto. Il titolo originale del film “L’Événement” ci fa riflettere sul significato di “evento”: se non ci sono le premesse necessarie, se è troppo presto, se non si vuole rinunciare alla propria vita, di che “lieto evento” si parla? È preferibile, allora, concepire quell’idea di “evento” legata alla legge che ha reso legale l’aborto: il solo e unico “evento” è la possibilità di scegliere. Soffermandosi, poi, più a fondo sull’idea di “rinunciare alla propria vita”, bisogna affrontare un’altra questione. C’è chi non vuole rinunciare alla propria carriera universitaria, chi ad una posizione lavorativa, chi alla propria libertà. Perché abbiamo (ancora) paura di ammettere che mettere al mondo un figlio comporti delle rinunce? Potrebbe non trattarsi di rinunce nel senso dispregiativo del termine, ma restano rinunce. In che modo ci si prende cura di un figlio (sempre che si abbia l’intenzione di essere presenti come genitori in un modo funzionale alla crescita) se si desidera seguire tutti i corsi all’università, o se si comprende di non avere la maturità per poterlo fare? Allora, per alcuni, il motivo legato all’università potrebbe ritenersi “giusto”, ma perché dovrebbe esserlo meno “giusto” rispetto a quello di non voler perdere la propria autonomia? 

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È da ipocriti pensare di essere all’altezza di sostenere il dibattito sull’aborto: non ne siamo in grado. C’è chi non si astiene dal giudicare, chi pensa di poter decidere mettendosi in una posizione di superiorità, chi addirittura si arroga il diritto di conoscere la vita degli altri dall’esterno. Se, allora, ancora oggi questo dibattito non si esaurisce (e sembra destinato a non esaurirsi mai), quanto risulta attuale un film come “La scelta di Anne”? Non è possibile (forse) arrivare alla radice ideologica del problema, ed è ancora meno pensabile poter superare lo scontro tra le posizioni avverse.

Adattamento dell’omonimo romanzo di Annie Ernaux, “La scelta di Anne” è un film che bisogna saper rispettare: bisogna accettare il dolore. Aver vissuto sul proprio corpo l’“evento” attribuisce il diritto inalienabile di parlarne, e questo è il primo punto da rispettare. Se anche non si fosse vissuto in prima persona, si avrebbe avuto lo stesso diritto, naturalmente; ma, il fatto che ci troviamo di fronte ad un dramma reale e possibile da contestualizzare, esige un rispetto ancora più forte e consapevole. Rispettare vuol dire anche immedesimarsi nei panni di una ragazza che legge Camus e Sartre e sogna di insegnare e di scrivere, e accettare, quindi, anche la visione dettagliata di un trauma così doloroso. 

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Un’altra riflessione importante da fare è quella che riguarda il ruolo dell’uomo. Chi definisce “La scelta di Anne” un film “per donne” conferma quanto siamo ancora inadeguati a sostenere il dibattito sull’aborto e, ancora di più, quello sulle questioni di genere. Il film non calca la mano sul rapporto di Anne con il padre del bambino, per non suggerire (forse) l’idea che se fosse rimasta incinta di un compagno “stabile” avrebbe avuto meno motivi per scegliere di interrompere la gravidanza. Che si tratti di una storia consolidata, di una relazione appena nata o di una neppure iniziata, si decide ugualmente. Questo non vuol dire, però, che l’uomo (che si tratti di un compagno stabile o meno) non abbia voce in capitolo o che pensi che la responsabilità sia solo della donna perché è lei “a possedere il corpo”. “La scelta di Anne” ci “illumina” sull’inadeguatezza di una società che non è ancora capace di preferire la cultura e, quindi, tornando a Camus, la libertà. La macchina da presa segue la protagonista (il film è girato in 4:3) e scava nel dolore al punto da soffocare; le immagini brutali mostrano, senza filtri, cosa significhi procedere ad un aborto utilizzando un ferro da maglia o una canna in utero per provocare la rimozione del feto. Si tratta, più che di un’opera cinematografica, di un’esperienza sensoriale e – soprattutto – radicale. La regia penalizza (forse) gli spettatori più deboli, ma muove su un piano più fisico che empatico per cercare di trascendere il contesto temporale e rimanere focalizzato sul tema di base che è la libertà, e non l’aborto. “La scelta di Anne” è un film rivoluzionario – che ricorda la “corsa” alla libertà di “Thelma e Louise” – che permette un’immersione totale nella storia: un film “asciutto”, traumatico e necessario.